Il contributo che segue, come premesso a questo link, è stato di ispirazione per i ragazzi della 2E per i loro racconti, a.s. 2020-2021.

In questa foto mio nonno, Giuseppe Loffredo (1895-1980; ho raccontato di lui in questo progetto), nonno Peppe per tutti noi, è ritratto alla scrivania, nella libreria di famiglia che era in Via San Biagio dei Librari n 2, nel centro storico di Napoli. In quel periodo le scrivanie erano al pianterreno, nella parte interna dell’ambiente d’ingresso dove era posto il banco di accoglienza per i clienti come si può vedere in questo scatto, sfocato, di anni successivi, probabilmente gli anni ‘50.

Tornando alla foto del nonno, ritratto in campo medio, il suo mezzobusto appare incastrato tra il piano della scrivania e gli scaffali stracolmi di libri alle sue spalle. Sorride guardando nell’obiettivo, con il busto reclinato a destra (per chi guarda) appena un po’ per permettere di appoggiare la testa alla mano rinchiusa a pugno. Dal confronto con altre foto di famiglia, posso datare lo scatto tra il 1935 e il 1936. Si tratta probabilmente di una foto destinata a documentare l’attività di famiglia, casa editrice e libreria, poiché ne ho ritrovata un’altra, palesemente scattata nello stesso luogo, che ritrae il padre di mio nonno, Luigi.

Il bisnonno Luigi, è ritratto sullo stesso sfondo dello scatto precedente; a conferma dei racconti di famiglia sulla sua indole introversa e ombrosa, non sorride all’obiettivo ma, serio e composto, girato di tre quarti, annota a matita un libro su cui è rivolto il suo sguardo. Le forme tondeggianti del nonno Peppe, distese in un’inquadratura orizzontale, contrastano con la verticalità e l’allungamento di quelle del bisnonno, raccontando inconsapevolmente la realtà dei loro caratteri: espansivo ed affettuoso Peppe, brusco e severo Luigi.
Il bisnonno Luigi dal 1908 era entrato nella società creata dal padre, Giuseppe, già associato dal 1894 con Francesco Rondinella “per esercitare la industria libraria” come si legge in una scrittura privata superstite all’incendio che nel febbraio del 1944, distrusse i locali dell’azienda con tutto il loro contenuto cartaceo.
Negli anni delle foto, l’attività faceva capo al solo Luigi aiutato da tre dei suoi cinque figli, Giuseppe, Mario e Giovanni; dal 1929 infatti la società era stata trasformata e denominata “Luigi Loffredo editore Napoli”.
Qui però non è la storia dell’attività di famiglia che voglio ricostruire (meriterebbe una narrazione a parte). Sono attratta invece dalla possibilità di documentare il passaggio del tempo, non solo ed inevitabilmente sulle persone, ma sugli oggetti, sulle modalità del vivere, sugli ambienti di lavoro e di studio in questo caso specifico. Tra le foto della collezione di famiglia sono stata colpita da alcune che mostrano miei familiari alla scrivania, per motivi di lavoro o di studio, e mi è parsa l’occasione per cogliere un’immagine del tempo nella sua lenta azione trasformatrice: ho provato quindi a leggere i documenti visivi come “fotografie” del tempo che passa incarnato, se così posso dire, nelle scrivanie.
“E’ il tempo, ovviamente, a determinare la robustezza delle nostre relazioni con le cose, a umanizzare gli oggetti a noi vicini. E’ ugualmente il tempo a trasformarli in un’accozzaglia di oggetti inutili, invecchiati e insoliti, a farli diventare ‘antimerci’(…)”. La citazione è tratta da un testo di Massimo Mantellini, Dieci splendidi oggetti morti, Einaudi 2020, (pag. 22), da cui ho tratto spunto per questa mia narrazione, che ripercorre la storia di alcuni oggetti scomparsi o trasformati, rintracciandone i legami con la nostra quotidianità.
“Le cose ci sopravvivono? Siamo circondati da quelli che Remo Bodei chiama gli ‘oggetti orfani’; contemporaneamente le nostre cose ‘non sono soltanto cose, recano tracce umane, sono il nostro prolungamento’, scrive ancora Bodei, citando Lydia Flem. Come tali diventano storia e testimonianza. Ci sopravvivono, certo ma nello stesso tempo muoiono con noi, se quei legami, chi verrà dopo di noi, non saprà più riconoscere. E un oggetto di un secolo fa, senza l’esperienza di chi lo utilizzava a quei tempi, ogni giorno perde una quota rilevante del suo significato “(ibidem pag. 18)
Queste due foto mi permettono di osservare la scrivania di due persone che negli anni ’30 a Napoli, svolgevano un’attività imprenditoriale. La protagonista assoluta mi sembra la carta e non solo perché la loro attività era editoriale. Vedo libri, fogli sparsi, un blocco per le fatture probabilmente. In primo piano un tampone a mezzaluna per l’inchiostro, accessorio indispensabile per un’epoca in cui la scrittura era affidata ai pennini e alla stilografica che in quegli anni aveva avuto già grande diffusione. L’ invenzione della stilografica si fa risalire all’incirca al 1883 grazie all’americano Waterman ma in Europa, dopo numerosi tentativi di perfezionamento, solo nel 1929 si affermerà grazie alla rivoluzionaria invenzione del caricamento a stantuffo della Pelikan.
Mio zio Gianni e mia madre Elena, che lavoravano in libreria dal 1948 circa, mi raccontano come accanto alla stilografica, almeno negli anni della scuola, usavano il pennino a cavallotto con l’asta. In questi due scatti, Gianni ed Elena Loffredo, ultimi custodi della storia di famiglia: il primo è un bellissimo mezzo busto in campo medio , opera di mio cugino Luca, (figlio di Gianni , prima chef e ora fotografo che vive negli Stati Uniti da oltre 30 anni) e il secondo è un ritratto di mia madre Elena sorridente che ho scattato con il cellulare.


Mi sono chiesta se in quegli anni in libreria avessero una macchina da scrivere. Sempre zio Gianni, ricorda che anche quando negli anni 50 e 60 avevano negli uffici le portatili Olivetti, c’era ancora una ingombrante M 40, con grandi tasti, capace di produrre caratteri nitidi e precisi. Questa macchina da scrivere fu proposta dall’Olivetti, in diverse versioni, dal 1933 al 1946. Ho mostrato alcune immagini a mia madre che ha riconosciuto quella prodotta tra il 1936-38, quindi probabilmente in quegli anni entrò in azienda.
Carta e carta stampata, penna, inchiostro, probabilmente una macchina da scrivere: questo è l’ambiente di lavoro aziendale di quei tempi. Forse Napoli era una realtà che si muoveva più lentamente nel seguire gli sviluppi tecnologici ma comunque mi colpisce che lo sfondo degli scatti del nonno e del bisnonno potrebbe essere sostituito da un dipinto di Giuseppe Maria Crespi, del 1725 – che era sulle ante di una libreria- senza che l’osservatore di oggi possa trovare grandi differenze.

Se penso alle riflessioni di Raffaele Simone sulla storia del modo in cui si formano le conoscenze umane e si alimenta il patrimonio del sapere, (R. Simone, La Terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza 2000 e successivamente, Id, Persi nella rete. La mente al tempo del web, Garzanti 2012) fino agli anni ’50 e anche oltre, siamo nella Seconda Fase, quella aperta dall’invenzione della stampa (la Prima coincise con l’invenzione della scrittura). Il traghettamento alla Terza Fase avverrà solo negli ultimi quindici o venti anni del XX secolo e avrà come motori del cambiamento la televisione ed il pc. La modernità è ancora lontana
Ancora alcuni anni e ci sarebbero state un’altra grande guerra, una sospensione e una successiva ricostruzione da cui si sarebbe emersi solo negli anni’50. La lunga fase di transizione mi sembra documentata da questi scatti successivi.


I primi due sono degli anni ’60. L’azienda di famiglia dopo la sospensione degli anni del secondo conflitto mondiale, aveva subito un duro colpo nel 1944, quando il 1° febbraio, scoppiò un incendio nella Scuola elementare Settembrini, durante l’inaugurazione e a causa di un corto circuito, che coinvolse l’edificio in via San Biagio dei Librai causando danni enormi. Zio Gianni racconta della rabbia del nonno per questa battuta d’arresto ma anche il conforto del sostegno di autori e tipografi che non abbandonarono l’azienda. Infatti le difficoltà furono superate e gli anni ’40 –’50, videro un ampliamento delle attività editoriali a livello nazionale e internazionale, con l’ingresso nel catalogo di autori prestigiosi. Progressivamente, dopo la morte del bisnonno Luigi nel 1955, entrarono nell’azienda di famiglia i miei zii, Enzo, Alfredo e Gianni, e successivamente (anni ’60-’70) i figli di Mario, Gino, Maria Cristina e Alfredo. Il nonno Peppe si occupava di stabilire la linea editoriale e manteneva i contatti con gli autori mentre Mario seguiva il settore della carta e della tipografia. Giovanni si dedicava alla contabilità
Gli uffici furono spostati al piano superiore dello stabile mentre il pianterreno restò riservato alla vendita. È in questi ambienti che sono state scattate le foto che propongo. Per questi anni posso pensare che i fotografi siano stati Mario, che era un appassionato della ripresa fotografica, e poi anche i miei zii Enzo e Gianni che avevano la stessa passione. Il nonno era attento a datare le foto; entrambi gli scatti del 63 e del 64 portano la data scritta di suo pungo e il secondo anche una dedica alla nonna Mena: “A mia moglie, sempre dolce, oggi più che mai. Peppino”.
In queste due foto, il nonno è sempre alla scrivania; in entrambe è ripreso in campo medio, a mezzo busto e di profilo nella prima, in piano americano e leggermente rivolto verso l’obiettivo nella seconda. Alle sue spalle la parete nuda mentre i libri sono affidati a una scaffalatura in metallo dalla struttura sottile. Anche nella poltroncina dalle esili gambe metalliche, schienale e braccioli imbottiti e nella scrivania di cui si intravede il piano, forse in formica e la struttura portante sempre in metallo, riconosco le caratteristiche fondate dal design anni ’50; applicate all’arredo d’ufficio svoltavano verso una concezione funzionale e leggera degli spazi lavorativi.
Sulla scrivania, in entrambe le foto, la carta domina ancora: libri, corrispondenza e francobolli. Il francobollo è un altro “oggetto” quasi estinto insieme alla spedizione postale eppure alla sua nascita, in Italia nel 1861, era stato una vera e propria rivoluzione nello svolgimento del servizio postale.
Il tampone per le stilografiche è scomparso ma rimane, nella seconda foto, quello (sulla pila di libri e carte in primo piano, che sembra un curioso rotolo schiacciato) per i timbri visibili, anche se sommersi dalle carte, sull’apposito sostegno.
Ancora, sempre su entrambe le scrivanie, ci sono due lampade in metallo smaltato: la cupoletta bombata della prima e quella appiattita a disco della seconda, sullo stelo tubolare innestato su una piccola pedana, sono gli elementi caratteristici delle lampade degli anni ’50, modelli persistenti anche successivamente quando affiancarono le forme tondeggianti degli anni ’60. Le lampade sono un oggetto privilegiato della progettazione di nuove forme.
Le altre due foto che propongo sono di circa un decennio successivo.
Nonostante l’inquadratura sia occupata quasi per intero dal nonno in primo piano, a mezzo busto, lasciando intravedere poco della scrivania, le ho scelte perché mi permettono di fare ancora due osservazioni

Nella prima foto il nonno ha lo sguardo rivolto in basso perché sta scrivendo ed impugna una penna a sfera, una Bic.
La scrittura col pennino o con la stilografica imperò a lungo e la gestazione della penna sfera richiese tempo. Brevettata nel 1938 da Lazlo Birò (che la chiamò, omettendo l’accento del suo cognome, Biro) dovette aspettare il 1947 per arrivare ad una produzione di massa grazie al barone Bich (tolse la h finale al suo cognome e le diede il nome) che, riducendo i costi di produzione, lanciò sul mercato nel 1950 la Bic Cristal
Non mancarono perplessità iniziali se si pensa che in Italia solo nel 1961 ne venne autorizzato l’uso per le firme sui documenti. Ancora nel 1968, quando feci il mio ingresso alle elementari, la maestra ci obbligava ad utilizzare la penna stilografica che sola avrebbe potuto garantire lo sviluppo di una bella calligrafia ed io ricordo la mia Pelikan verde oliva a cartucce, la carta assorbente da utilizzare tra una pagina e l’altra dei quaderni, l’indice e il medio della mia mano destra perennemente macchiati di inchiostro blu. Oggi la penna, come la scrittura a mano, è insidiata dalla tastiera che a sua volta è minacciata dal touch e dal vocale, ma resiste almeno per usi rapidi e burocratici (firme, moduli, promemoria) e nelle scuole dove hanno spazio studi di neuroscienze che sottolineano l’importanza della scrittura a mano per lo sviluppo di importanti funzioni del cervello. Resiste anche in nicchie di estimatori, tra cui ci sono io, per cui la penna è un oggetto con cui costruire un legame addirittura affettivo, scelta con cura valutando spessore del segno, forma. Anche questa narrazione ha preso forma prima scrivendo con la penna su un quaderno: una Bic Cristal!
“Scrivere a penna oggi è una dichiarazione di intenti con alcune somiglianze con l’ascoltare musica su dischi in vinile. È elegante e dice cose di noi, è antieconomico e certamente romantico, per il resto semplicemente non lo si fa più” commenta Mantellini (ibidem, pag 32).

Nella seconda foto il nonno parla al telefono e nonostante sia il 1971, l’apparecchio è in bachelite: lo ricordo bene, proprio in quegli anni, anche nelle case dei nonni paterni e materni. Alla parete o da tavolo, era un’attrazione per noi bambini soprattutto per la rotella con i numeri (disco combinatorio) in cui infilavamo le nostre piccole dita, anche senza dover telefonare, solo per sentire il caratteristico rumore simile ad un ronzio; poi la bachelite era bella da toccare: satinata e fredda, così diversa dalla termoplastica del mitico apparecchio grigio che dominava nelle nostre case più moderne. Il telefono sulla scrivania del nonno mi sembra proprio un FaceF51 degli anni ’50 in bachelite; è un modello da ufficio con i pulsanti bianchi per deviare le chiamate in altri interni o per gestire più linee telefoniche.
La storia della telefonia in Italia, proprio negli anni ’50 approdava al piano di estensione della teleselezione (che superava la ricerca di un abbonato attraverso la centralinista) sul territorio nazionale, ma l’operazione andò avanti a tappe e solo nel 1970 si concluse.
Il telefono è un oggetto che non è morto ma ha subito notevoli trasformazioni nel tempo e oggi si può dire che è diventato altro come osserva Mantellini: “Oggi continuiamo a chiamare ‘telefono’ un oggetto convergente difficile da definire: Comodissimo e pericoloso, proprio in relazione al suo spirito riassuntivo, alla sua pretesa di contenere tutto, di essere luogo primario non solo delle nostre comunicazioni ma anche della nostra memoria, della cultura e della nostra capacità di essere informati. Un po’ troppo per un oggetto di taglia media” (ibidem, pag 27)
