A Napoli dal Srilanka, di Angela Yashidi Ekanayake, II E

Chaminda Sanjeewa Ekanayake, mio padre, è nato nella città di Colombo in Srilanka il 13 Luglio del 1975; mia madre Nuthika Kalpani Weerasinghe invece il 4 dicembre 1979, nella stessa città.

Entrambi hanno vissuto nella loro città natale tutta l’infanzia e adolescenza, ma una volta sposati, l’11 febbraio del 2008, dopo due anni di fidanzamento fondato su speranze e progetti futuri, decidono di trasferirsi in un altro Stato, che sarà l’Italia, con la voglia di mettere su famiglia e trovare una vita migliore all’estero.

Qui i miei genitori sono ritratti, nel giorno del loro matrimonio, nel momento del taglio della torta nuziale, in casa dei genitori a Colombo. Nella fotografia ci sono nove persone: da sinistra, c’è prima il cugino di mio padre di nome Sheeron, poi sua figlia Sajani, mio nonno che è il padre di mia madre di nome Somarathna, mio padre, Chaminda, mia madre, Nuthika, la sorella di mio padre, Anuradha, mia nonna materna, Kumari, e infine mia nonna paterna, Soma. Questa foto è anche conservata in una cornice nel soggiorno di casa dei miei nonni e ancora i miei genitori mi raccontano di quando gliel’hanno data già incorniciata e loro erano molto felici di esporla nel salotto e di farla vedere a tutti i loro amici e parenti. Mia nonna in particolare è molto affezionata a questa foto perché il vestito di mia madre è stato realizzato da sua figlia, quindi oltre ad essere contenta del matrimonio è anche fiera di vedere questo bellissimo vestito realizzato interamente a mano.

Ancora uno scatto del matrimonio dei miei genitori. La fotografia è stata scattata in un famoso hotel dove i miei genitori hanno festeggiato, per la seconda volta, dopo la celebrazione del loro matrimonio. Mio zio Sameera quando vede  questa foto ride molto perché si ricorda che durante il ricevimento c’era molto cibo e molto vino; infatti racconta di quanto si era divertito a ballare con tutti gli amici e i parenti, ascoltando il sottofondo musicale della band che suonava canzoni tradizionali.

Mio padre partì per primo in direzione di Roma, il 23 febbraio del 2008, precisamente 12 giorni dopo il matrimonio, per poi trovare dopo qualche giorno una sistemazione a Napoli, dove lo aspettava già suo fratello Sameera, trasferitosi un anno prima.

Mio padre mi racconta di sentimenti contrastanti che erano in lui all’inizio: da una parte si sentiva felice di trasferirsi in un nuovo paese, si sentiva pronto a imparare una nuova cultura, una nuova lingua e fare nuove esperienze; dall’altro si sentiva solo, essendo partito senza mia madre, che lo avrebbe raggiunto il prima possibile, e aveva allo stesso tempo paura dell’ignoto, non sapendo all’inizio come muoversi e come sarebbe stata la sua permanenza lì. Una volta trovata una casa a Napoli, era il momento di affrontare le difficoltà dell’adattamento, ma trovò subito lavoro tramite dei contatti che aveva avuto dal fratello e con impegno e costanza riuscì ad andare avanti nonostante tutte le difficoltà iniziali.

Le molte differenze culturali all’inizio si facevano sentire, soprattutto per quanto riguarda il cibo; infatti mio padre, che ha sempre amato molto il cibo, si trovava in difficoltà perché non riusciva a avere la stessa alimentazione che aveva prima. Allora, ancora non c’erano tutti i ristoranti che ci sono adesso a Napoli che cucinano piatti tradizionali srilankesi, come il “roti” che è una specie di piadina preparata con il pane integrale ( ricetta tipica dell’Asia meridionale), oppure il “kiribath”, un piatto a base di riso cucinato con latte di cocco. Cose impossibili da trovare allora.

ecco una ricetta con il roti

 Poi pian piano si è abituato e ha iniziato ad amare anche lui la cucina italiana, soprattutto la pizza margherita, che prende almeno una volta al mese in una pizzeria vicino casa dove va da anni. Le sue giornate erano molto lunghe: si svegliava la mattina presto e si ritirava a casa tardi; per raggiungere il posto di lavoro prendeva molti pullman, che spesso tardavano, ma era molto determinato, quindi mi racconta che non gli è mai pesato più di tanto perché mosso dal desiderio di creare una famiglia e con la speranza di ritornare dai suoi familiari in Sri Lanka e assicurarsi un futuro migliore. Quindi le sue giornate erano piene di emozioni contrastanti come l’entusiasmo e la nostalgia.

L’11 febbraio 2009, precisamente un anno dopo il matrimonio, arrivò a Napoli anche mia madre, anche lei speranzosa e soprattutto felice di rivedere mio padre dopo 1 anno intero.

Inizialmente avevano trovato un appartamentino nella zona del centro storico della città, precisamente vicino il Museo Archeologico Nazionale, una casetta piccola ma accogliente a cui erano molto affezionati che però hanno dovuto lasciare dopo circa 6 anni.

Questa foto, del 15 novembre 2009, scattata da mio zio Sameera, ritrae i miei genitori all’ingresso del palazzo in cui hanno fittato la loro prima casa a Napoli.

Entrambi lavoravano molto, ma comunque non si facevano mancare momenti di divertimento e svago con gli amici che erano partiti con le loro stesse intenzioni: andavano a cena fuori, facevano lunghe passeggiate, andavano al cinema per imparare meglio la lingua, ma soprattutto guardavano i cartoni animati in sostituzione dei corsi per imparare bene la lingua italiana. Questa cosa mi ha sempre fatto ridere, ma capisco quanto possa essere utile guardarli perché usano frasi molto semplici e intuitive.

Qui, il 1 maggio del 2010, si trovavano a Padova, seduti sul bordo della fontana antistante la Basilica di Sant’Antonio. I miei genitori mi hanno raccontato che si erano recati a Padova con alcuni amici e altre persone srilankesi per pregare, come ormai da tradizione della comunità, e sperare di avere un po’ di fortuna per ottenere il permesso di soggiorno in Italia e quindi essere veramente in regola con i documenti necessari.

Il tempo passava e arrivavano anche molte soddisfazioni e gioie come un nuovo lavoro per mio padre, più conveniente, e una figlia in arrivo, che sarei poi diventata io. 

Era la fine del 2010 quando mia madre rimase incinta di me e mi ha raccontato di quanto fosse felice ma anche allo stesso tempo spaventata di far nascere una bambina in un posto completamente diverso da dove era nata lei. Infatti si chiedeva spesso come mi sarei trovata a scuola e con gli amici, ma poi c’era sempre mio padre che la tranquillizzava e si davano la forza di andare avanti. Il 10 agosto 2011 nacqui io e le cose cambiarono. Mia madre non poteva più lavorare per accudirmi e mio padre erano più carico di lavoro del solito, ma anche questa volta non gli è mai pesato, anzi era ancora più felice all’idea di tornare a casa e trovare non più una persona, ma due. Non mi ha mai nascosto che all’inizio non é stato facile, ma dice anche che, con l’aiuto di mio zio, le cose andavano sempre meglio. Crescendo non mi è mai mancato niente, ho sempre visto i miei genitori lavorare duro e cercare di dare a me e mia sorella, nata 5 anni dopo di me, tutto il necessario e questo l’ho sempre apprezzato molto e per questo sono il mio modello da seguire.

La fotografia è stata scattata da un’amica di mia madre di nome Sajani e ritrae la mia famiglia al completo, in gita alla Reggia di Caserta, il 29 agosto del 2017. Mia zia Nilanka, moglie di mio zio Sameera, fratello di mio padre, quando vede questa foto ricorda di che bella giornata trascorreremo insieme e della lunga passeggiata che facemmo. Poi mi racconta che mi aveva regalato la borsetta di Frozen, da cui io ero ossessionata, e che la portavo sempre con me (infatti si vede nella foto) e mettevo dentro la mia piccola macchina fotografica che usavo per scattare foto alle cose che mi piacevano di più.

L’idea iniziale dei miei genitori era quella di tornare nel proprio paese, avendo fatto tutti questi sacrifici proprio per questo ma, con il passare del tempo e con due figlie, hanno deciso di restare qui, avendo capito che a Napoli potevano essere veramente felici e assicurare a me e a mia sorella un futuro migliore. In questi anni però hanno sempre avuto contatti con i propri familiari rimasti in Srilanka e spesso sono anche ritornati al paese per alcuni mesi, portando anche me e mia sorella a conoscere i parenti e la loro vita di prima.

Quindi nonostante la nostalgia di casa, rimane più importante per loro la tranquillità e la sicurezza che può dare una città come Napoli.

Questo ritratto della mia famiglia, del maggio 2023, è stato scattato in occasione del capodanno srilankese, nella scuola che frequentavo prima. Al centro ci sono io, la figlia maggiore, poi accanto a me c’è la mia piccola sorella Flavia che ha 8 anni; alla mia destra c’è mia madre, Nuthika, e a destra troviamo, mio padre Chaminda. Ogni tanto, quando in famiglia rivediamo questa foto, tutti iniziamo a ridere per l’espressione di mia sorella. Infatti, possiamo notare che la mia piccola sorella Flavia non è contenta di stare in posa per questa foto. Stava giocando con le sue amiche e diceva  che non aveva tempo. Anche io ho un’espressione un po’ annoiata perché era una bella giornata con tanto sole quindi è stato molto difficile scattare questa foto; non riuscivo neanche a guardare verso la telecamera per la luce del sole che colpiva i miei occhi.

Infine ancora uno scatto del dicembre 2023 che ritrae la mia famiglia quando siamo andati a Pompei, al Santuario della Vergine del Santo Rosario. E’ stato divertente scattare questa foto. Mentre mio zio Sameera ci inquadrava, il mio cuginetto faceva strane facce per farci ridere

Quel leone di mio nonno (a cura di Flavia Masiello 1G)

 21/06/1949

Molto spesso i nostri nonni amano raccontarci la loro vita attraverso storie che per noi sembrano lontane nel tempo e che ci fanno capire e vivere periodi storici completamente diversi da quelli in cui viviamo noi giovani. Ho trovato molto avvincente e interessante la storia della vita di mio nonno Rosario, il padre di mia madre. 

Era il 1943 quando è nato mio nonno materno e, in quel periodo, si viveva nell’angoscia della II Guerra Mondiale. La mia bisnonna era incinta al nono mese quando dei soldati tedeschi fecero irruzione nella loro abitazione a Napoli per prendere gli uomini di casa. La mia bisnonna non parlava tedesco ma al giovane soldato che si vide piombare in casa, mostrò il pancione facendogli capire che se le avesse portato via il marito, per lei non ci sarebbe stata possibilità di sopravvivenza. In quel momento avvenne un miracolo perché il soldato fu preso da un momento di pietà e comandò all’altro soldato di andare via da lì. Ormai la città non era più un luogo sicuro, per cui i miei bisnonni decisero di sfollare nelle campagne della provincia e precisamente ad Afragola, dove trovarono ospitalità presso una famiglia di contadini che però non aveva stanze a disposizione per tutti. A un certo punto però, arrivò il momento di partorire e la mia bisnonna come la Vergine Maria, partorì in un fienile dove c’erano anche alcuni animali che con il loro fiato, riscaldavano l’ambiente. Era il 13 ottobre del 1943 quando nacque mio nonno Rosario come Gesù bambino e, per il cordone ombelicale, fu utilizzato il filo di cotone della piega della gonna della mia bisnonna. A causa della guerra, mio nonno fu dichiarato al Comune più di un mese dopo, ma quello che contò di più fu che mio nonno riuscì a sopravvivere e crescere senza contrarre alcuna malattia. Infatti, egli è cresciuto sano e forte, è stato sempre un appassionato di calcio, in quanto si divertiva a praticare questo sport con i suoi amici di infanzia.

   02/05/1952

Ha sposato mia nonna Ida il 28/07/1971 dopo averla conosciuta a Ischia durante le vacanze estive del 1968 e con lei ancora è legato da un matrimonio che dura da tantissimi anni. 

Dall’unione dei miei nonni sono nate due figlie: mia zia Daniela nel 1972 e mia madre Marisa il 01/08/1973.

14/02/1974

Mio nonno è sempre stato un appassionato di auto e ai tempi della sua giovinezza le auto molto alla moda erano quelle della Fiat. Infatti quando mio nonno diventò maggiorenne e superò l’esame della patente, acquistò un modello di auto che all’epoca era molto apprezzato, cioè la Fiat 500, detta anche “Topolino”, forse per la sua forma particolare che ricordava un topo.

20/10/1965

Nonno Rosario ha anche trascorso la sua vita svolgendo la professione di odontoiatra ed è stato sempre molto ambizioso. Si è laureato molto presto e ha incominciato la sua carriera facendo prima la gavetta presso vari studi dentistici ma poi si è affermato come un bravo professionista e ha aperto studi tutti suoi anche fuori Napoli.

Oggi il nonno ha 80 anni e si può dire che la sua vita è stata piena di soddisfazioni, raggiungendo molti traguardi. Anche se sul suo viso ci sono ormai i segni dell’età, come è invecchiata la foto in basso, il suo sorriso ci riempie sempre di gioia ogni volta che ci incontriamo e i suoi acciacchi di salute li affronta sempre con la forza e la determinazione di un leone, come ha affrontato sempre per tutta la sua vita.

04/04/1966

Il mio bisnonno e i suoi sogni in costruzione (a cura di Sveva Quaranta 1G)

Pasquale Vetrano1909-1998

Pasquale Vetrano è il mio bisnonno, è nato il 15 ottobre del 1909 e fin da giovane ha iniziato a lavorare nel mondo delle costruzioni stradali, partendo dalla mansione di operaio e poi come capocantiere delle grosse imprese del nord.

Tra i tanti lavori svolti come capocantiere c’è la costruzione di un’autostrada in Africa, precisamente in Tanzania, dove ha contratto la malaria.

Tornato a Napoli, ha fondato una sua impresa aprendo uno stabilimento per la produzione di conglomerato e bituminoso (materiale per costruire le strade) e poi ancora un impianto per la produzione di calcestruzzo.

Articoli di    giornale  l’inaugurazione dello stabilimento I.C.E.B. di Pasquale Vetrano

Nel 1950 ha costruito le piste dell’aeroporto di Capodichino e nel 1960 il tratto autostradale tra Napoli e Pompei e ha costruito tante strade importanti di Napoli dove sorgevano solo campagne, tra queste via Petrarca

Cantiere dell’autostrada Napoli-Salerno – Tratto Napoli-Pompei

Casello dell’autostrada Napoli- Pompei-Salerno

La sua vita privata è stata piena di gioia, ma anche di profonde sofferenze.

Infatti si è sposato con una donna di nome Fedele dalla quale ha avuto tre figli, ma lei è morta in giovanissima età, lasciandolo solo nel compito difficile di padre. In seguito si è risposato con la mia bisnonna di nome Anna e ha avuto con lei ancora cinque figli. Purtroppo di questi, due sono deceduti quando avevano solo quaranta anni e a soli sei mesi di differenza l’uno dall’altro.

Ma nel complesso è sempre stato attorniato dall’affetto della sua numerosa famiglia che si è allargata con ben sedici nipoti e tanti pronipoti.

Mi raccontano che è stato un grande uomo, capace di cose importanti.

Era un uomo burbero ma con un grande cuore, ha aiutato tante persone bisognose ed è stato generoso con le persone meno fortunate di lui.

E’ morto nel 1998 dopo essere stato colpito da un ictus che lo ha lasciato invalido per ben 8 anni.  

Marcella: una cittadina europea, di Valeria De Laurentiis

Ho intervistato la mia amica Marcella, napoletana emigrata in Germania. Conosco Marcella dalla nascita poiché è la figlia dei miei vicini di casa che considero come persone di famiglia. Non conoscevo invece nel dettaglio il suo interessante percorso, prima di studi, poi lavorativo, che l’ha portata a vivere e costruire anche la sua famiglia fuori dall’Italia.

Marcella si racconta:

Il mio nome è Marcella, sono napoletana, ho 46 anni e vivo all’estero da più di vent’anni. Ho vissuto in diversi paesi. A dir la verità, la prima volta che sono stata fuori è stato, a vent’anni (1998) con L’Erasmus in Scozia. Lì c’è stata la svolta perché mi è piaciuto così tanto vivere in un altro paese, scoprire un’altra cultura che ho deciso che prima o poi, avrei fatto un’altra esperienza all’estero.

Conservo le foto di quella bellissima esperienza in un album. Quelli che seguono sono tutti scatti del 1999, in Scozia: all’orto botanico; mentre studiavo all’aperto con i compagni di corso e infine la mia piccola stanza al college.

Come e perché hai deciso di lasciare Napoli?

La mia non è stata una fuga. Non sono andata via perché non mi piaceva Napoli, ma perché mi piaceva scoprire cose diverse. A spingermi era più un istinto da esploratore che ancora oggi ho quando vado in vacanza e non mi aspettavo che poi sarei rimasta così a lungo fuori.

Tu hai terminato i tuoi studi a Napoli. Come è stato che sei andata in Germania, dove vivi tutt’ora?

Come ti dicevo, durante l’esperienza dell’Erasmus, aver conosciuto spagnoli, francesi, finlandesi, tedeschi, mi ha fatto sviluppare una certa curiosità per le altre culture e quindi, per non pesare sulla mia famiglia, ho cercato di fare altre esperienze all’estero, ma da lavoratrice. Quindi, ancora prima di andare in Germania, ho fatto un’esperienza a Bruxelles, alla Commissione Europea

Che anno era?

Mi sono laureata nel 2002 e sono andata a Bruxelles nel 2004, da gennaio a giugno. Facevo uno stage retribuito (percepivo quasi l’equivalente di uno stipendio italiano) in un’unità che finanziava progetti di Ricerca e Sviluppo; supportavo le attività di comunicazione di questa unità. Fare uno stage in commissione, in realtà è un modo per entrare in contatto con la comunità europea; a parte questo lavoro di assistenza e di osservazione che fai, per cui ti danno dei piccoli task, la cosa interessante è che ti fanno fare tante riunioni con le industrie, con gli stati membri per cui in qualche modo ti fanno scoprire il lavoro che fa la commissione europea.

Qui ero a Bruxelles, nel 2004 e nello scatto seguente, sempre del 2004, c’è anche Mario Monti, giusto per dare un’idea delle esperienze che potevi fare in quel contesto. Io sono in primo piano, a sinistra.

un breve video che spiega cosa fa la commissione europea

Ma tu qui in Italia non trovavi un lavoro? Mi ricordo che avevi fatto un dottorato dopo la laurea…

Si, ma è stato sempre dopo Bruxelles. Queste sono state esperienze mirate alla ricerca di una sistemazione all’estero. Terminato lo stage a Bruxelles, sarei anche rimasta là ma non trovai subito lavoro e invece lo trovai in Italia. Mi piaceva l’idea di stare in Italia, di lavorare all’università. A Fisciano, non nel dipartimento di Scienza della comunicazione in cui mi sono laureata, ma al dipartimento di Ingegneria a Benevento, ho seguito un master di Ingegneria del software; mi ero quindi spostata su argomenti un po’ più scientifici, tecnici… Lavorando però all’università per un paio di anni, (anche se ben pagata perché avevo un contratto non di dottorato ma su progetti di ricerca) mi sono trovata in condizioni di lavoro non piacevoli: tante tante ore; avevo solo 26 anni e lavoravo a Fisciano, dove andavo in macchina, fino alle 19, qualche volta le 20 e quindi mi ritrovavo a non vivere la settimana

E guadagnavi bene?

Si, per la mia età e per quegli anni, andavo dai 1200-1300, anche 2000 euro, se si accumulavano due contratti; in un anno una media di 1000-1200 euro netti al mese che a 26 anni, lavorando in Italia, lo consideravo un signor stipendio. Poi stavo a casa con i miei genitori e non avevo altre spese. Era però una realtà lavorativa che per me non si poteva protrarre perché mentre i miei amici uscivano, avevano una socialità, io facevo questa vita sofferta da lavoratrice però senza prospettive perché non c’era possibilità di contratti a tempo indeterminato e poi, un po’ come succede nell’università italiana, dipendi dai professori che sono abbastanza egocentrici nel loro modo di gestire le attività. Quindi ho deciso di lasciare. Avevo anche pensato di fare un dottorato, anche meno retribuita, spostandomi nell’area dei miei studi originari e facendo un’esperienza in un contesto, diciamo, umanistico, che sarebbe stato anche più interessante includendo lettura, cinema, scrittura; sarebbe stato più interessante e mi sarei occupata di tematiche che potevo condividere con le persone che frequentavo all’epoca. Invece nel dipartimento di ingegneria, lavoravo a tanti progetti di ricerca europea, in inglese (uno dei motivi per cui mi presero era proprio che la mia padronanza della lingua inglese era buona), ma era un posto dove mi confrontavo solo con adulti. Ho lasciato senza avere un’alternativa perché non ce la facevo più. Per caso quasi sono finita in Germania perché seguivo un corso di formazione della Camera di commercio di Napoli su come scrivere proposte progettuali per i Fondi Europei e parte di questi fondi erano quelli con cui si finanziavano i progetti all’università, al dipartimento con cui io lavoravo. Questo corso avrebbe completato la mia formazione perché non riguardava solo i progetti di ricerca ma anche quelli di sviluppo e soprattutto i progetti di cooperazione internazionale in cui il consorzio, costituito da industrie europee, trasferiva conoscenza ai paesi in via di sviluppo o a quelli che si erano appena uniti all’unione europea o avevano intenzione di farlo. Durante questo corso di formazione, ho conosciuto un ragazzo; anche lui lavorava all’università, a Napoli, ad Economia e commercio. Lui lavorava come consulente per una società tedesca. Attraverso questa società tedesca ho avuto un primo incarico per tre settimane come ingegnere del software (utilizzando quindi la mia esperienza all’università, in quel dipartimento da cui ero voluta andare via) e del master. Ho fatto quindi un’esperienza di lavoro in Turchia, per tre settimane. Là ho conosciuto uno dei capi, dei manager della società tedesca da cui sono stata invitata poi per un colloquio due mesi dopo.

Questi sono due scatti dell’esperienza in Turchia.

Ma facevi delle lezioni lì? Perché io ricordo, e ancora il ricordo mi fa sorridere e insieme mi stimola ammirazione per la tua intraprendenza, che mi chiedesti una giacca in prestito…

Si, ti chiesi una giacca in prestito perché in quelle tre settimane in Turchia, facevo formazione su come si gestivano dei progetti disviluppo di applicazioni informatiche al fine di mantenere la documentazione. Questo è un po’ il fine dell’ingegneria del software: come registrare tutte le analisi dei requisiti, i documenti successivi, come organizzare il testing dell’applicazione. Dovevo insegnare però io non ero mai stata in Turchia e ho scoperto poi che Ankara, pur essendo una città musulmana, è in realtà un centro internazionale. Invece, prima di partire, immaginavo che per la cultura musulmana non potevo andare lì con le braccia scoperte. In realtà ero anche molto preoccupata su come vestirmi. Mentre stavo in Turchia l’Italia vinse i Mondiali! Era il 2006 e mi dispiacque non essere a casa.

Un anno dopo andai in Libano con un incarico simile. Conservo alcune foto di quell’esperienza. Con la stessa società, sono stata anche in Romania, Albania, Macedonia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Malta e di nuovo in Turchia (questa volta a Istanbul).

Poi andasti in Germania…

Si, andai per il colloquio che mi, ricordo, feci il giorno di San Gennaro, il 19 settembre del 2006.

Che società era quella per cui facesti il colloquio?

Era una società medio-piccola di consulenza che si occupava di progetti di cooperazione internazionale, aveva una cinquantina di dipendenti e c’erano tanti tedeschi che avevano vissuto all’estero perché uno dei requisiti per essere assunti era conoscere bene le lingue, l’inglese ma anche il francese e lo spagnolo per i progetti nell’America Latina o in Francia. Quindi il giorno dopo il colloquio mi contattarono e mi dissero che mi avrebbero assunta.

In che città?

A Colonia il colloquio, ma mi dissero che mi avrebbero assunta in una loro piccola società satellite, solo con 5 dipendenti, che stava a Bonn. Accettai perché in quel momento ero disoccupata, l’ultimo stipendio lo avevo preso a gennaio

Ma secondo te restando qui a Napoli avresti potuto trovare lavoro?

Dopo che ho lasciato l’università ho cercato lavoro e mi ricordo che c’erano le elezioni per il sindaco. Mi ero un po’ intrufolata negli uffici dei consiglieri comunali che volevano essere rieletti per la campagna elettorale, sperando di ricavare qualcosa, anche un lavoro a termine, ma non fu così.

Invece a Bonn…

Invece in Germania, mi pagarono l’albergo per quattro giorni, feci il colloquio, ebbi anche il tempo di visitare un po’ sia Colonia che Bonn. Mi mostrarono l’azienda satellite e mi offrirono un lavoro a tempo indeterminato. Il primo stipendio era di 1400 o 1500 euro netti. Accettai e pensai: “Va be’, resto un paio di anni qui, imparo il tedesco e poi me ne torno”. Invece dopo tre anni, in cui mi era piaciuto moltissimo il lavoro che svolgevo, pensavo a spostarmi, visto che lavoravamo molto con le istituzioni europee, miravo a Bruxelles, alla Commissione europea, tra l’altro avevo abitato a Bruxelles.

Ma come è stato per te trasferirti definitivamente in un paese diverso? L’impatto, la socialità, la sistemazione

Allora, partiamo dal presupposto che ancora ora, e così era pure quando sono partita, io non penso che le cose sono per sempre. Le cose si iniziano, poi si vede. Non vivo le scelte in modo permanente. Quindi ho sempre vissuto gli inizi con una certa leggerezza, come una vacanza di un periodo più lungo. Perché dico questo, perché le aspettative sono molto diverse quando pensi di fare qualcosa per un tempo limitato. Non ricerchi subito le amicizie di una vita, non ricerchi le comodità a cui sei abituato. Inoltre sapere che guadagnavo e che anche i miei genitori a casa stavano economicamente bene, mi ha sempre permesso di pensare che se volevo potevo tornare Quindi sono stata sempre in una situazione di “poterismo” (forse ho inventato un neologismo!) non di doverismo. Non ho mai vissuto lo stare all’estero come un devo restare, in Italia morirò di fame perché non c’è lavoro. È stata sempre una scelta, ero consapevole che si trattava di una scelta che mi avrebbe offerto di più. Per la sistemazione ho sempre cercato un alloggio da dividere con qualcuno. Quando mi sono trasferita in Germania, per lavorare con la società satellite, mi hanno detto che anche una ragazza bulgara si stava trasferendo. Quindi prima sono stata ospitata per un mese a Bonn da un amico (ex ragazzo di una mia amica conosciuta a Bruxelles) e poi ho cercato casa con questa ragazza bulgara che non conoscevo prima. Questa esperienza lavorativa dal punto di vista della sistemazione è stata vissuta un po’ come quella di uno studente fuori sede.

A Bonn sono stati begli anni, in buona compagnia. Conservo diverse foto di serate con amici di tante nazionalità diverse.

Avevi nostalgia di casa?

No. A dir la verità l’unica volta che ho provato molta nostalgia è stata quando ho fatto l’Erasmus in Scozia: avevo 20 anni e non c’era lo smartphone, con WhatsApp, i messaggi. Avevo un telefono portatile che mi aveva dato mia madre ma costava tantissimo telefonare, 6000-7000 mila lire e anche dalle cabine telefonica costava tantissimo. Lì ho vissuto tanta solitudine all’inizio, ma poi è stato facile socializzare. Ero in un appartamento al campus, con altre sette ragazze di cui una tedesca (il mio destino in Germania pareva già delineato) mentre le altre erano scozzesi e nordirlandesi. Mi ricordo che scrivevo lettere lunghissime alle mie amiche e al mio ragazzo, Marco. Lui non mi rispondeva però quando le ho rilette, perché lui le ha conservate, mi sono resa conto che in realtà scrivevo a me, raccontando tutto quello che facevo. Comunque dopo un mese circa la nostalgia è finita.

Invece a Bonn è stato diverso perché ero già più abituata. Sai, l’esperienza all’estero ti rende molto forte perché sei meno dipendente dai legami affettivi che hai. Mi sento un po’ cinica a dire questo ma poi ci penso e mi dico che in realtà non è un non voler bene, è semplicemente la conquista di un’indipendenza emotiva. Certo, ora che i miei genitori si stanno facendo più anziani, ogni volta che torno mi dispiace di più lasciarli. Anche perché come dice il proverbio, “Tutto il lasciato è perso”: ci sono momenti della quotidianità familiare che non vivi.

Dunque sintetizziamo: Bonn, trasferimento, sistemazione, impatto positivo…era il 2006

Si, mi presi un mese di tempo e mi trasferii a metà ottobre. Non avevo motivi per ritardare il trasferimento

Oggi, tu lavori per l’EASA, l’agenzia europea per la sicurezza aerea, come ci sei arrivata?

Dopo tre anni che lavoravo in questa società a Bonn, avevo imparato tantissimo e si è fatto avanti un desiderio di crescita professionale. Quindi cercavo a Bruxelles; ho sostenuto diversi concorsi da funzionario ma cercavo anche nelle varie agenzie satelliti, perché la commissione europea ha varie agenzie esecutive. Una di queste si trovava a Colonia, l’EASA. Un collega mi inviò un annuncio che corrispondeva proprio al mio profilo. L’agenzia era a Colonia, a 20 km da Bonn dove vivevo. Quindi feci domanda. Fu un colloquio molto difficile. Prevedeva uno scritto, poi un’ora e mezza di domande con un pannello di quattro persone che ti intervistavano. Si trattava sia di domande tecniche che di domande su come gestire situazioni di conflitto, di assenza di input da parte di colleghi che te li devono fornire per un ruolo di coordinamento. Mi chiamarono dopo un mese per dirmi che non ero stata selezionata nell’immediato ma ero in una Reserve list. Per un anno chiamavo regolarmente per sapere dell’avanzamento della lista e poi mi hanno assunto.

Quindi anche l’EASA è una di queste agenzie?

Si, è un’agenzia della Commissione europea; non esegue un budget della Commissione, è un’agenzia permanente ed ha un suo regolamento. E’ finanziata per il 30% dalla commissione europea mentre per il 70% i finanziamenti sono le quote che l’industria paga per la certificazione degli aerei.

Le compagnie aeree?

No, i produttori di aerei

Ma tu che fai lì? Che ne sai di aerei?

Io non ne sapevo nulla ma dopo quindici anni che lavoro lì, non sono un’esperta di ingegneria dell’aviazione ma ne capisco parecchio di aviazione. Il mio primo ruolo è stato un ruolo di coordinamento di un processo per fare le proposte legislative che poi vanno in commissione al parlamento europeo, sempre nel campo dell’aviazione. Per fare un esempio semplice: la formazione di piloti. Io coordinavo e i lavori di coordinamento li fai contando su degli esperti; è un lavoro gestionale. Però c’è un processo da seguire ed io ero responsabile che il processo fosse seguito in un certo modo, ma anche di migliorarlo sempre più e farlo diventare più efficiente. Da lì poi ho cambiato varie posizioni sempre più verso il project management, l’esperienza che portavo dalla società di cooperazione internazionale per cui avevo lavorato. Per esempio, ho coordinato il progetto che è stato lanciato internamente dopo l’incidente della Germanwings, del pilota che si è suicidato; bisognava implementare misure di sicurezza per evitare che accadesse di nuovo. Comunque ora sono 15 anni che lavoro per l’EASA.

Ecco alcuni scatti in cui puoi vedermi nel pieno delle mie attività

In questi altri alcuni momenti della mia quotidianità in ufficio

Questo è il panorama di cui godo dal mio ufficio

Nel frattempo però anche la tua vita affettiva, familiare ha avuto un’evoluzione, sempre in Germania

Si, l’evoluzione è stata un po’ dettata, guidata dal mio lavoro perché quando mi sono trasferita in Germania, il mio fidanzato stava ancora studiando. Poi quando ho preso questo incarico EASA, molto ben retribuito, come dipendente europeo, Marco, il mio compagno stava ancora cercando di inserirsi nel mondo del lavoro. Nel momento in cui abbiamo avuto intenzione di mettere su famiglia, non aveva senso per me lasciare una posizione così stabile per iniziare insieme daccapo da qualche altra parte. Allora Marco mi ha raggiunta; diciamo che non è stato proprio felice perché lui è molto legato a Napoli, a differenza di me soffre a starne lontano. Soffre anche la lontananza dai suoi amici, insomma dalla quotidianità napoletana. Comunque alla fine mi ha raggiunto e i nostri bimbi, Francesco e Giulia, sono nati in Germania. Francesco nel 2013 e Giulia nel 2017. Anche questa è stata un’esperienza bellissima perché il parto, l’assistenza che ti danno, l’infrastruttura scolastica: è tutto totalmente diverso da quello che si vive in Italia.

Ecco i miei bimbi: Giulia aveva pochi mesi. Qui ci sono altri scatti di qualche anno fa

In questa foto sullo sfondo del panorama di Colonia, ci siamo noi quattro con una coppia di amici e il loro bimbo che sono venuti a trovarci (in primo piano da sinistra, Giulia e Francesco; in secondo piano da sinistra, accanto al nostro amico con il bimbo, Marco, poi la mia amica e infine io) .

Quindi tu sei contenta. Se ti chiedessi di fare un bilancio del tuo migrare, anche se non è stato dettato da una situazione difficile, che diresti?

Il mio bilancio è molto, molto positivo. Farei tutto esattamente nello stesso modo, altre cento volte. Forse mi pento solo, ed era un mio sogno, di vivere un periodo in America o in Australia. Forse lo avrei dovuto fare prima di trasferirmi in Germania e per un periodo breve, perché ora, a 46 anni, non avrei il coraggio di andare così lontano da Napoli. Finché si sta in Europa, con due tre ore di volo, anche attraverso diverse combinazioni (voli su Milano o Roma e poi un treno veloce), hai la certezza che puoi sempre tornare a casa.

Tu valuti migliore la qualità di vita in Germania rispetto all’Italia?

Non si può generalizzare perché Napoli è una realtà a sé stante. Se però facciamo un confronto nel dettaglio, la qualità della vita in Germania è molto, molto più alta considerando gli spazi verdi, la possibilità di muoversi in bicicletta. L’indipendenza che hanno i bambini è una cosa straordinaria. Spesso, quando torno a Napoli, mi trovo con amici e amiche e i loro bambini non hanno posti dove correre, sono tenuti per mano oppure vedo, passeggiando per via Luca Giordano o via Scarlatti, tanti bambini grandi nei passeggini con il cellulare tra le mani; forse è l’unico modo, per i genitori, per fare una passeggiata. Invece in Germania ci sono tanti spazi, non ci sono motorini che sfrecciano. Insomma la vivibilità, soprattutto con i bambini piccoli, è migliore. Dal punto di vista di un adulto, Napoli ti offre il mare, paesaggi bellissimi, gli aperitivi con gli amici, ma tutto questo a fronte dell’organizzazione quotidiana, quella scolastica, dei tuoi tempi per lo sport conta poco. Credo che le foto seguenti parlino da sole…

Nel verde…

…e a scuola.

Pensi di tornare in Italia?

Marco ha questo desiderio e la certezza che vuole tornare in Italia. Io mi sono fatta un’idea che quando sarò in pensione perché no. Quando sei in pensione, non sei vittima dell’organizzazione e degli orari, poi il telelavoro è una realtà che si sta sviluppando sempre più. Inoltre quando i bimbi avranno 18 anni e andranno all’università, possiamo anche lasciarli da soli a Colonia e andare a trovarli. Mi piacerebbe insomma progettare un rientro graduale, un po’ in Italia e un po’ in Germania. Immagino una vita tra due paesi. Comunque sì, penso di tornare

Ti senti un migrante?

No, io mi sento europea

Quindi senti di esserti mossa all’interno di uno spazio, quello europeo, che comunque ti apparteneva

Sì. Poi dopo tanti anni, io mi sento a casa in Germania. La lingua non la padroneggio ancora benissimo, nel senso che non riesco a seguire un telegiornale in rilassamento completo e comprendere proprio tutto quello che viene detto

Anche perché soprattutto nell’ambiente di lavoro comunichi in inglese…

Esatto, però riesco a socializzare, riesco a fare una battuta se vado dal panettiere, riesco a parlare con le maestre, con i medici. Insomma mi sento a mio agio. Abbiamo stretto anche tante amicizie. Sono perfino madrina di due bambini tedeschi.

In questa foto ad esempio, stiamo pranzando con amici del posto (Marco ed io siamo al capotavola in secondo piano; in primo piano a sinistra, Francesco e Giulia, di spalle)

E i tuoi figli, secondo te, sono più tedeschi o italiani?

Secondo me sono più tedeschi, nel senso che sono integratissimi nel contesto, parlano tedesco benissimo e anche l’italiano, a parte l’accento. Francesco legge libri sia in italiano che in tedesco, anche per la televisione è lo stesso. Insomma loro sono bimbi tedeschi; conoscono molto bene la cultura e le tradizioni italiane però si sentono tedeschi. Vedremo per che squadra tiferanno quest’anno ai campionati europei se la Germania giocherà contro l’Italia.

Infine, eccoci in uno scatto dell’ottobre 2023, a Londra, durante una vacanza

Grazie Marcella! Spero che la tua storia possa essere d’ispirazione soprattutto per i ragazzi che la leggeranno: competenza, tenacia insieme a spirito d’avventura e capacità di cogliere l’occasione possono molto.

Cacciatore di coccodrilli, di Alice Baldissara III E

Giovan Battista Maiorana, il nonno di mia nonna materna, era nato nel 1879 in Calabria, precisamente di un paesino di nome Aieta vicino a Praia a Mare.

Questo scatto del 1950, sullo sfondo del Castel Nuovo, a Napoli, è l’unica foto, purtroppo, che conserviamo in famiglia.

Avendo perso i genitori, verso la fine del 1800, partì per cercare fortuna assieme al fratello più piccolo Raffaele.

Imbarcò su una grande nave piena di emigrati ed arrivò in Sud America. Mia nonna non sa perché scelse come meta proprio l’America del sud, infatti a quei tempi molti preferivano emigrare negli Stati Uniti, dove c’erano più opportunità di lavoro.

Questo filmato racconta l’emigrazione italiana tra fine’800 e inizi ‘900

Lui comunque raccontava di essere arrivato dopo molti giorni di viaggio, nel porto di La Guaira, il porto principale di Caracas, e che sul molo Simon Bolivar si era riversata una folla enorme di compaesani, tutti un po’ sperduti e spaesati.

Molti suoi compagni di viaggio, però, si sarebbero fermati a Caracas, che allora era un piccolo centro, poco più di un paesino, il nonno invece aveva deciso di andare nella zona dei llanos, perché era un ottimo cacciatore.

Essendo partiti all’inizio della primavera, Battista (così lo chiamavano in famiglia) e suo fratello si trovarono ad affrontare le piogge del clima tropicale, in una zona più pericolosa e inospitale come quella delle pianure alluvionali, piena di corsi d’acqua e zone paludose e dove non mancavano né la malaria, né i banditi. Si fermarono in una delle poche fattorie della zona e cominciarono la loro attività.

A San Ferdinando di Apure alle foci dell’Orinoco, il fiume più importante della regione c’erano molti coccodrilli. Il nonno raccontava che erano enormi, soprattutto i maschi, lunghi fino a 6/7 metri. Il nonno e suo fratello era molto bravi a sparare e lui raccontava che spesso riuscivano a centrare tra gli occhi un coccodrillo anche a molti metri di distanza, uccidendolo sul colpo. 

Questo è un bel documentario sul bacino dell’Orinoco e sulla sua ricchissima fauna

Grazie a questo suo lavoro molto duro e pericoloso, il nonno riuscì ad arricchirsi. Il commercio delle pelli pregiate come quelle di coccodrillo era molto redditizio a quell’epoca, serviva per fare prodotti di lusso come borse, portafogli, cinture, guanti e anche valigie, che i ricchi americani del Nord compravano volentieri. 

Il nonno così si arricchì, senza però mai dimenticare la sua famiglia in Calabria, anzi continuando a mandare denaro a casa per far studiare il fratello più piccolo, Luigi, che così riuscì a laurearsi a Napoli in giurisprudenza e a diventare avvocato. 

Dopo più di 10 anni trascorsi tra mille sacrifici e difficoltà, che il nonno non amava ricordare, decise di fare ritorno in patria, ma solo per salutare i parenti e gli amici, perché la sua intenzione era quella di stabilirsi definitivamente in Venezuela, dove ormai aveva un’attività ben avviata.

In Italia, a Napoli, però, conobbe la giovane Gemma Sambrini, la nonna di mia nonna.

Nel salotto di casa della mia nonna materna, è esposto questo quadro del pittore Carmigniani che ritrae Gemma.

S’innamorò di lei e nel 1910 decise di sposarla. Ebbero otto figli, due morirono ancora in fasce; dei rimanenti sei, cinque erano femmine, uno solo era il maschio che è poi diventato un importante magistrato. Tra questi figli c’era anche Wanda Maiorana, la mamma di mia nonna, di cui anche mia madre porta il nome

Il nonno   investì tutto il suo denaro in immobili, comprando delle case e aprendo un negozio di pasticceria in via Santa Brigida a Napoli. La sua famiglia era molto stimata, tutte le sue figlie erano molto belle e mia nonna mi racconta che il popolino scherzosamente le chiamava “le regine di santa Brigida!”

Il nonno Battista fu un grande antifascista e non volle mai prendere la tessera del partito, e, dopo le leggi razziali che proibivano agli ebrei di svolgere attività commerciali e di possedere beni, aiutò la famiglia ebrea del suo grande amico Marco Zillberstein, che era proprietario di una famosa orologeria e gioielleria, mettendone in salvo i beni.

Purtroppo durante la seconda guerra mondiale il nonno Battista perse molto denaro a causa della svalutazione, aveva però un bel carattere ottimista (forse perché ne aveva passate tante) e come ricorda mia nonna, sempre un bel sorriso sulle labbra. Perciò dopo la guerra continuò a vivere serenamente con la sua famiglia in via Santa Brigida, dove morì il 2 marzo del 1952 all’età di 73 anni.

Storia della mitica Flora, di Mariarosaria De Luca III E

15 giugno: una del 1929 e l’altra del 2010. Questa è la data di nascita di mia Zia Flora e
mia. Ho conosciuto Zia Flora che ero una bambina e lei, ultranovantenne, era piena di vitalità: allegra, simpatica, spiritosa, disponibile, mille racconti e mille “magie” che affascinavano, una “nanerottola” come me. La vedevi e pensavi: ”Avrà novanta anni fuori ma, dentro, sicuramente è una ragazzina”.

Purtroppo dopo l’estate del 2019, non ho più avuto l’opportunità di rivederla a causa del COVID, ma durante le telefonate con mia nonna Rosaria ho sempre avuto modo di parlarle ed è rimasta nel mio “cuore”: una zia (o meglio prozia) lontana a cui ho voluto bene.

Questa foto dell’agosto 2019, realizzato dal figlio Gennaro, ritrae la zia durante una cena al ristorante Ciro a Mergellina, prima della sua partenza per rientrare in Australia. Al centro c’è mia nonna, Mariarosaria, a sinistra zia Flora e Gennaro a destra. Mia nonna ha un ricordo bellissimo della serata, l’ultima volta che ha visto Flora dal vivo.

Flora amava viaggiare e tornava spesso in Italia e quando veniva a Napoli non poteva non andare a Capri. Niente la fermava: non potendo camminare bene per raggiungere il suo posto del cuore, il ristorate Tiberio, si era fatta trasportare da una Apecar.

Questi scatti del luglio 2019 mostrano la vitalità di zia Flora che, nel luglio 2019, ha partecipato attivamente ai preparativi e ai festeggiamenti per il matrimonio del nipote, Alessio, che si sono svolti sull’isola.

Per farvi conoscere la sua storia ho chiesto ad uno dei figli, il più “bravo” a raccontare, di parlarmi di lei, della sua vita. Così mio zio Gennaro, che ancora vive lì in Australia, mi ha  fatto rivivere l’infanzia di Flora, il burrascoso periodo della guerra, l’incontro con Tonino, fratello di mia nonna Rosaria, il trasferimento in Australia.

15 giugno 1929: Flora nasce al Rione Sanità, a Napoli, da Carmela Pellone e Gennaro Bevilacqua, seconda di sette figli: Tecla, Flora, Lidia, Nina, Titina, Salvatore e Adriana. La famiglia si trasferisce poi in un bellissimo appartamento, in Viale Michelangelo, all’epoca una delle strade più prestigiose del Vomero. Dopo un inizio di sacrifici, il papà Gennaro diventa un imprenditore di successo nell’industria conciaria, forniva pellame a famose fabbriche di calzature, borse e soprattutto a rinomati guantai Napoletani. 

Per avere un’idea di questa famosa arte artigiana napoletana

Flora ha frequentato la scuola Margherita di Savoia in Piazza Bellini, (FOTO 1). La mamma di Flora era impegnata nella fabbrica di famiglia ed anche per questo Flora trascorreva molto tempo a scuola dedicandosi pure ad attività pomeridiane, in particolare la musica, suonava infatti la fisarmonica (FOTO 2) ed il pianoforte, passioni che ha mantenuto per tutta la vita.

Questa è la foto, risalente agli anni tra il 1935 e il 1940, del tesserino di Flora della Scuola Margherita di Savoia.

Qui, all’inizio degli anni ’40, Flora è ritratta sorridente, mentre in un momento di svago suona la fisarmonica.

La Seconda Guerra Mondiale cambiò drasticamente la vita della famiglia di Flora.  La nuova conceria di suo padre era situata a Gianturco, nelle immediate vicinanze del porto di Napoli, all’epoca obiettivo di continui bombardati. Uno dei numerosi bombardamenti distrusse la fabbrica del padre. Il Palazzo in Viale Michelangelo venne confiscato dagli americani per ospitare gli alti ranghi dell’esercito e la famiglia costretta a lasciare Napoli per sfuggire alla guerra. 

I bombardamenti su Napoli

Nel 1941 il papà di Flora, a seguito di questi eventi, ebbe un ictus; la mamma, Carmela, era incinta dell’ultima figlia Adriana; così Flora appena, quattordicenne, e Tecla si occuparono dei fratelli e di aiutare la madre incinta. 

Nel corso degli anni di guerra le esperienze che Flora affrontò formarono il suo carattere, era furba, forte, coraggiosa ma anche razionale e determinata. Fin da giovane, Flora sviluppò una scaltrezza che le fece venire alcune grandi idee per aiutare la sua famiglia. L’idea geniale le venne quando, ascoltando la sorella maggiore Tecla che si lamentava per il peso degli zoccoli che indossava, pensò di alleggerirli e ricavarne uno spazio dove custodire gli oggetti di valore, l’oro i diamanti e altro. Così un giorno chiese ad un loro cliente, che aveva una piccola fabbrica di calzature, di alleggerirli il più possibile. Lo scopo era raggiunto e sua sorella maggiore Tecla, a sua insaputa, nascose i gioielli della famiglia nei suoi zoccoli che in seguito servirono per sopravvivere barattandoli per tutte le necessità anche quando raggiunsero Baiano.

Con l’aiuto di alcuni parenti, all’età di 15 anni (1944), Flora organizzò una carrozza per trasportare la famiglia Bevilacqua fuori da Napoli per sfuggire ai bombardamenti e viaggiarono verso Sulmona. All’arrivo, la madre di Flora le chiese di tornare a Napoli poiché, nella fretta di partire, aveva lasciato alcuni importanti gioielli. Così Flora tornò a Napoli per prendere quello cha la mamma Carmela aveva dimenticato, ma, al suo ritorno a Sulmona, la famiglia non c’era più, perché costretta a fuggire dai bombardamenti. Lei non riuscì a riunirsi con loro fino a circa un anno dopo, a Baiano. 

Dai suoi racconti, si capisce che la cosa più importante per lei, dopo essersi riunita con la sua famiglia nel paesino di Baiano, fu che lì incontrò, causalmente, il suo amato futuro marito Tonino, il fratello di mia nonna Rosaria. Baiano era lontana dalla guerra e si viveva come in una oasi di pace. 

Tutte queste foto sono state scattate a Baiano, tra il 1946 e il 1947, e testimoniano la serenità della vita nel paese. Tonino raccontava, rivedendo queste foto, alla sorella Rosaria (mia nonna) che in quel luogo aveva incontrato “l’amore”.

Alla fine della guerra, entrambi rientrarono a Napoli alle loro abitazioni. Tonino viveva a Via Duomo e Flora con i genitori era rientrata nell’ appartamento in Via Michelangelo. 

Tonino e Flora si rincontrarono casualmente nella Funicolare dell’Augusteo: Flora stava tornando a casa sua in Via Michelangelo e TO’ stava andando a trovare un cliente a cui la ditta di famiglia forniva carbone, la Pizzeria Acunzo, un’attività che esiste ancora oggi. 

Da quel giorno Flora e TO’ furono inseparabili per tutta la vita, insieme andarono alla scoperta delle città italiane, e spesso organizzavano giornate al mare a Capomiseno, con lunghi pranzi al ristorante Giona, con la famiglia di Tonino; mia nonna Rosaria, la più piccola della famiglia, era sempre presente.

Questo scatto e quello successivo, testimoniano una giornata speciale di Tonino e Flora a Roma, tra la fine degli anni’40 e gli inizi dei ’50.

 Qui invece, negli anni ’50, in questa foto di gruppo a Capomiseno, troviamo da sinistra un amico di famiglia, il mio bisnonno Gaetano, la mia bisnonna Giuseppina e un altro amico di famiglia; in basso mia nonna Mariarosaria, la sorella di Flora, Adriana, Tonino e Flora. La nonna Rosaria racconta di Miseno come di un luogo mitico, cambiato in peggio negli anni, di spensierate giornate al mare e di lunghi pranzi al ristorante Giona, all’epoca unico ristorante sulla spiaggia.

TO’ continuò a lavorare nell’azienda di famiglia nel porto di Napoli, dove Flora lo andava spesso a trovare. Era sempre in stretto contatto con persone provenienti da tutto il mondo e imparò rapidamente l’inglese. 

Qui, alla fine degli anni ’50, Flora è ritratta proprio in uno di quei giorni in cui andava a trovare Tonino in azienda

Flora e Tecla dovettero inventarsi un qualcosa per sostenere la famiglia e decisero di comprare una macchina per maglieria e iniziarono a produrre maglieria in casa. Fabbricavano capi di alta qualità, avevano una vasta clientela anche fra la comunità statunitense presente a Napoli.

 La passione di Flora per la moda e la maglieria la portò, insieme a Tonino, ad aprire il loro Atelier a Ponte Di Tappia, a Napoli, “FLOREAN” che sta per Flora e Antonio. Organizzavano sfilate a cui partecipavano le signore napoletane ed anche la comunità americana che viveva a Napoli.

Per loro sfilò anche Jane Mansfield, nota attrice americana di quegli anni.

13 dicembre 1953: Flora e Tony si sposano, il giorno di Santa Lucia, e raccontano i miei zii ( i figli) che sono cresciuti con questo ritornello: “Il tredici Dicembre Santa Lucia e Mamma e Babbo in Allegria”. 

Questi sono alcuni scatti realizzati durante la festa di nozze.

La festa per il matrimonio si tenne a villa Herta una bellissima villa di Via Palizzi. Il 13 dicembre, racconta mia nonna Rosaria (che all’epoca aveva 10 anni), fu un giorno di grandissima eccitazione per lei che era una bambina, sorella dello sposo. La famiglia era molto conosciuta in città e quindi al ricevimento parteciparono moltissime persone. Il vecchio bar Daniele – storico bar del vomero- organizzò l’evento. Nell momento della partenza per il viaggio di nozze, che avveniva subito dopo il pranzo, la commozione dei genitori di Flora e dei miei bisnonni fu molta.

Tra il 1954 e il 1962 Flora e Tony ebbero 5 figli: Nino, (FOTO 9) Pinella, Gennaro, Patrizia e Rosario a cui hanno trasmesso la loro forza, i valori, il coraggio, l’umiltà.

Ecco Gaetano, il primogenito, in posa sul cofano anteriore di un’auto dell’epoca, nel 1954


Flora e Tony avevano un amore per l’avventura e l’ambizione di viaggiare, volevano esplorare il mondo. L’occasione, o la scusa, si presentò quando Tonino conobbe un Australiano al porto di Napoli che lo convinse ad esplorare l’Australia.

In questa foto, Flora e Tonino siedono a pranzo con gli amici australiani

1964 il primo viaggio verso l’Australia. Nonostante il parere contrario del mio bisnonno Gaetano e della mia bisnonna Giuseppina, Flora e Tony, nemmeno 40enni, salirono a bordo del transatlantico Guglielmo Marconi con i loro 5 figli piccoli e la giovane Tata Franca.

Questa non è una foto di famiglia, ma è stata sempre conservata perché è l’immagine della nave su cui salparono per il memorabile viaggio.

Un viaggio memorabile di 24 giorni, così lo ricordano i miei zii, una grande avventura alla  scoperta di un’ altro mondo: una traversata da Napoli ad Atene attraverso il canale di Suez poi Aden, Singapore, la festa al passaggio dell’ equatore verso Fremantle, per poi arrivare a Melbourne.

Tra i ricordi di famiglia si conserva il libretto di bordo.

In questi scatti dell’aprile 1964, sono immortalati diversi momenti della vita a bordo della nave. I miei zii ricordano questo viaggio come una grande avventura: per i più piccoli fu puro divertimento, mentre Nino e Pinella, i più grandi, ricordano la paura che sentivano pensando all’Australia e il dispiacere per la vita che lasciavano.

Arrivati a Melbourne andarono ad abitare per un breve periodo a Richmond. Flora e Toni dovettero ricominciare da zero. Dopo un breve periodo di lavori umili, Flora fu assunta da un noto maglificio che le diede un ruolo importante all’interno dell’azienda. Tonino fu assunto come venditore da una nota catena di negozi elettrodomestici. Per i figli di Tonino e Flora il trasferimento in Australia non fu facile: era un luogo totalmente diverso da Napoli sotto tanti aspetti soprattutto per le diverse abitudini di vita.

A scuola si andava con la divisa e, prima di entrare in classe nel piazzale antistante la scuola, con il suono dell’inno di “God save the Queen”, dovevano assistere all’alzabandiera. La vita in città, soprattutto all’epoca, non era certo come quelle della caotica Napoli.

Zia Pinella fece la prima comunione in Australia e ricorda che pur essendo un giorno di festa era forte la malinconia per i nonni che erano a Napoli e per gli amici che aveva lasciato. 

La foto è del 1965 e ritrae Tonino e Flora ai lati e poi Pinella con l’abito della prima comunione, Nino, Gennaro ed il piccolo Rosario

Il motto di Flora era: non ci sono problemi ma soluzioni. Le difficoltà furono tante, ma Tonino e Flora erano forti e non si accontentavano. Con grandi sacrifici aprirono una loro attività e acquistarono i macchinari per la maglieria. Traslocarono da Richmond a Ormond Rd Elwood, dove cercarono di far ambientare i ragazzi.

Dall’altro lato del mondo a Napoli i genitori di Tonino continuavano a chiedere al figlio e a Flora di rientrare a Napoli. A Gaetano e Giuseppina mancavano molto anche i nipoti che dall’Australia mandavano foto ai nonni esprimendo il loro affetto (FOTO 16)

Così zia Pinella, nel marzo del 1965, inviava i saluti ai nonni in Italia

Alla fine Tonino e Flora, anche per la mancanza dei genitori e della città, decisero di rientrare a Napoli, questa volta imbarcati sulla nave gemella della Marconi, la Galileo. 

1966: dopo aver trascorso due anni a Melbourne, Flora e la famiglia rientrarono a Napoli e andarono a vivere con i miei bisnonni, Giuseppina e Gaetano  in Via Domenico Fontana 27, Isolato 11, al terzo piano. La famiglia tornò a casa. Gennaro, Pinella e Patrizia erano nati lì, dove abitava mia nonna Rosaria e dove e poi è nata mia mamma. 

Flora mise in piedi il laboratorio di maglieria in uno dei garage. Questi anni per i miei zii furono- così li descrivono- “anni fantastici”. Zio Gennaro, nel ripensare quanti spostamenti hanno fatto, si rende conto ora, a distanza di tempo, di quanto possa aver faticato e sicuramente sofferto la mamma Flora. Nella memoria dei miei zii restano i momenti felici, le tante vacanze estive in famiglia, a Capri, a Via Palazzo a Mare dove andavano da quando chiudevano le scuole, a giugno, fino alla riapertura a settembre. Capri, la passione di zia Flora, era come la loro seconda casa: il Ristorante da Paolino, i Bagni Tiberio, Punta Tragara e le stelle cadenti, le uscite con il gozzo di Carluccio a pescare i Totani.

Dicembre 1975: i problemi nelle attività di Tonino e Flora, li portano a tentare nuovamente l’avventura australiana. Questa volta partono in Aereo, su un DC10 dell’Alitalia, da Roma Fiumicino per Sydney, in transito per Melbourne. In questa occasione partirono in 6, Pinella restò a Napoli con mia nonna Rosaria. Non c’era la sicurezza di restare in Australia anche perché non avevano il visto. A Melbourne alloggiarono qualche settimana al Diplomat Hotel di St Kilda, un quartiere sul lungomare che ospitava un misto fra artisti, personaggi di ogni tipo e origini e all’epoca, e in un certo senso ancora oggi, era il quartiere a “luci rosse”. 

Poco prima del previsto rientro in Italia un amico di Tonino, Edward Ekselman, un simpatico signore ebreo con ancora tatuato sul polso il numero di quando era nei campi di concentramento Nazisti, aiutò Tonino a rimanere in Australia. La comunità ebraica era molto influente in Australia e Edward aveva molti contatti. Chiamò un certo Jack Kornhauser.  La famiglia Kornhauser, all’epoca era fra le più ricche e influenti in Australia; fra i tanti interessi erano anche azionisti della Hertz e Diners Club Australia, proprietari della catena di Hotel Ramada , Chevron.

Dopo un po’ si trasferirono nel quartiere di Brighton. Tony e Flora (ed anche i piu’ grandi dei miei zii) fecero tutti i tipi di lavori: pulizie in alberghi, supermercati, pub, pitturazione, camerieri, baristi lavapiatti operai in cantieri. Nel giro di pochi mesi Tony e Flora comprarono (per la terza volta) 2 macchine per maglieria: Flora ricominciò con la sua passione. Si fece conoscere velocemente e, anche grazie alla moglie di Jack Kornhauser, entrò in contatto con una clientela molto sofisticata che apprezzava anzi amava le sue realizzazioni.

Fra le tante clienti ricorda la signora Gasden, moglie del proprietario della TetraPak, che si presentava con la sua Roll Royce; la signora Milledge, moglie del distributore Australiano della Yamaha e Piaggio, 

Tonino e Flora ormai si erano stabiliti definitivamente in Australia (vari momenti della nuova vita in Australia dall’arrivo nel 1975 in avanti. Qui di seguito una serie di scatti negli anni.

Dal punto di vista lavorativo questo secondo trasferimento portò Flora e Tonino a raggiungere importanti obiettivi e consentì anche ai figli una volta cresciuti di avere buone  opportunità lavorative. Proprio per sviluppare la loro attività decisero di andare in Italia con Nino, il più grande dei figli, alla ricerca di qualcosa di nuovo. Destinazione Napoli, Como, Firenze, Milano, Torino. In Italia Flora concluse vendite esclusive e firmò accordi commerciali con varie aziende. Così in Australia arrivano i Foulard in seta della Musimeci, le calzature della Casuccio e Scalera ,Ciro Bisanti, Ramirez, Campanile, Ferrante, le borse e pelletterie della Carlino e le cravatte in seta da Como e Torino.

Aprirono uno show-room, le prime due camere della loro casa: gli articoli di abbigliamento provenienti dall’ Italia erano così interessanti e nuovi per l’Australia. Poi l’attività crebbe ed aprirono il primo negozio.

Zia Flora ha sempre lavorato con determinazione, ed ha sempre coinvolto i figli in tutto ciò che faceva per lavoro. Flora era una donna appassionata e dedita al lavoro e alla famiglia. Ha accompagnato i suoi figli durante tutta la loro vita e li ha resi capaci di affrontare qualsiasi difficoltà. Tra le tante attività svolte in Australia Flora, che era anche una cuoca “fantastica”, ha aperto insieme a Patrizia e Rosario il  “Tiberio Restaurant“, proprio a Brighton. Il nome Tiberio fu scelto per ricordare i bei momenti a Capri. Tiberio all’epoca diventò un Ristorante di riferimento molto apprezzato anche da importanti critici gastronomici tanto da ottenere una recensione stampata in cui si parlava del loro ristorante.

I figli di Flora hanno avuto grandi opportunità in Australia e partendo da quelle che erano state le “imprese” dei genitori hanno costruito il loro avvenire

Gennaro ha aperto mega store a Sidney dando spazio ai grandi marchi italiani come Cuccinelli e non solo. Tra le firme che è riuscito a portare nel suo mega store ci sono anche HERMES.

Il figlio Alessio a sua volta, ripercorrendo quello che era stata la strada dei nonni, ha aperto a Napoli un atelier ed è in contatto con le grandi firme italiane.

Il figlio più’ piccolo di Flora, Rosario, è diventato uno dei più importanti produttori di perle (AUTOREPEARLS), apprezzate e scelte da star internazionali.

L’attività di questi due figli di “emigranti” è stata riconosciuta come un esempio all’evento organizzato, nel 2022, per i 100 anni del “Italian Bussines Exellence in Australia”, evento a cui una elegantissima Flora non poteva mancare anche se non stava già bene

Questo scatto del novembre 2022, ritrae Flora all’importante manifestazione a cui non era voluta mancare.

Emigrare in Australia per la famiglia Autore ha sicuramento portato nel tempo anche per i figli ed i nipoti di Flora e Tonino, a risultati positivi dal punto di vista lavorativo fornendo delle opportunità che forse in Italia non avrebbero avuto. Fino a qualche settimana prima di partire per il suo ultimo viaggio, quello senza ritorno, Zia Flora è rimasta una commerciante, un’imprenditrice tenace, astuta. Ad oltre 90 anni ancora portava oggetti preziosi alle Aste per venderli, ma soprattutto non ha mai perso il suo immenso amore per la vita .

Storie di migranti. I racconti della II e della III E, di Valeria De Laurentiis

Quest’anno, nelle classi II e III E, il progetto Sguardi e storie ha proposto il tema Storie di migranti. Lo stimolo è venuto ovviamente dall’attualità, dalle storie spesso drammatiche che entrano nelle nostre case e a cui siamo quasi abituati: ci indigniamo, ci commuoviamo, ma, nella maggior parte dei casi, quello migratorio ci appare un fenomeno lontano da noi.

La II E
La III E

Eppure migrare è un fattore evolutivo fondamentale; la storia di Homo sapiens e dei suoi predecessori ci racconta come sia un fenomeno strutturale e costitutivo della nostra identità di specie.

“Siamo migranti, quindi, da sempre pur con modalità diverse: prima adagio e inconsapevolmente, poi più velocemente e avendo l’intenzione di farlo; prima solo sul suolo, poi anche con le idee, ancora poi attraverso strade, mari, cieli; prima soprattutto con spostamenti forzati, dal clima, e da altre impellenze di sopravvivenza poi sempre più per una scelta pianificata” (Valerio Calzolaio, Telmo Pievani, Libertà di migrare, Einaudi 2016, pagg VII, VIII).

Siamo tutti migranti: da questo punto fermo è nata l’idea di proporre ai ragazzi un’indagine nelle proprie famiglie, alla ricerca di parenti o conoscenti che abbiano lasciato il proprio luogo di origine. All’inizio c’è stata una resistenza, soprattutto in seconda, proprio per un’apparente estraneità al fenomeno. Abbiamo affrontato il tema delle migrazioni in diverse conversazioni: in terza facilitati dallo studio dei capitoli dei manuali scolastici dedicati al tema e dalle elaborazioni a partire dal testo di L. Menazzi Moretti, Io sono, Giunti 2017; in seconda ricostruendo i termini della problematica attraverso discussioni di gruppo, anche commentando le notizie dell’attualità. Inoltre, in seconda, avevamo una nuova fonte interna di informazione con cui confrontarci: proprio quest’anno sono arrivati in classe due alunni, Nelith e Angela, di origini srilankesi che hanno potuto raccontarci le loro storie familiari.

Poi abbiamo dato il via alla ricerca, attivando come sempre la rete di familiari e conoscenti, anche oltreoceano. L’esperienza degli anni precedenti ha permesso di velocizzare i tempi e quindi le fasi:

individuazione del soggetto,

raccolta di informazioni (da fonte diretta o da testimoni),

raccolta di documentazioni fotografiche, schedatura delle stesse,

elaborazione di una narrazione, utilizzando anche la tecnologia digitale.

Per le narrazioni, abbiamo predisposto uno schema di base per intervistare i testimoni, diretti e indiretti, che ciascuno ha utilizzato come riteneva più opportuno. Nel corso delle attività, la prima scoperta sorprendente, che confermava la tesi di partenza (“prof! Ha ragione! “è stato il commento più frequente) anche per i più scettici, è stata che, nella storia di ogni famiglia ci sono migranti. Il tessuto sociale medio-alto a cui appartengono la maggior parte dei ragazzi, nonostante si percepisca come un monolito del benessere e della realizzazione professionale, ha rivelato comunque ramificazioni di passaggi, trasformazioni, spostamenti. Sono emerse, pian piano, dalle storie che raccontavano, le molteplici motivazioni: si migra per migliorare la propria condizione economica, per amore, per inseguire un sogno professionale, per sopravvivere a un dolore, per spirito di avventura, perché ci si innamora di un luogo. Oltre a quelli territoriali, abbiamo scoperto che diversi sono i paesaggi emotivi da attraversare: distacco, nostalgia, paura dell’ignoto, adattamento, sacrificio, ma anche soddisfazione, sorpresa, scoperta, piacere.

Da una piccola riflessione scritta da ciascuno dei ragazzi, seguita al lavoro svolto, tutti affermano di aver visto il fenomeno della migrazione sotto una luce diversa, inglobato anche nella loro realtà. Qualcuno, che ha raccolto testimonianze più sofferte, ha manifestato preoccupazione:

“E se fossimo stati proprio noi a dover fuggire? Avremmo sopportato tutte le difficoltà? Saremmo riusciti a cavarcela da soli? Avremmo trovato un po’ di serenità?” (Giulia, III E)

Tutti hanno colto una differenza sostanziale, confrontando le loro storie con quelle che conosciamo attraverso giornali, telegiornali, film: la libertà di migrare fa la differenza, dettata spesso dalla situazione socio-economica di partenza.

I ragazzi hanno rilevato come lo scenario migratorio attuale presenti molteplici varianti.

“Il fenomeno migratorio contemporaneo contempla quasi ogni motivo espellente o attirante, volontario o coattivo: mercato del lavoro, lingua, urbanizzazione, ricchezza, povertà, fame, sete, malattia, guerra, persecuzione, deprivazione, degrado, inquinamenti, disastri. E ingloba quasi ogni esperienza biografica, amore, sport, studio e ogni altra dinamica affettiva o professionale o culturale: pensionati benestanti occidentali (specie migratoria: estate qua inverno al caldo); professionisti migranti e nomadi professionisti vissuti di cento mestieri in decine di patrie; terze e quarte generazioni di matrimoni misti. Una tale confusione dei fermenti migratori rischia di far perdere di vista chi non ha la capacità di migrare, chi continua a migrare solo internamente al proprio paese, chi è costretto a migrare, chi è costretto a migrare dalle troppe emissioni occidentali di gas serra” (ibidem pag 97)

La libertà di migrare oggi è diritto di pochi, i più stabili economicamente, i più competenti, i più istruiti possono pianificare trasferimenti.

Ancora una volta è sullo sfondo delle forti diseguaglianze, tratto distintivo della società attuale, che si muovono le migrazioni per cui nelle aree povere accrescono la voglia di fuggire e diminuiscono la possibilità di farlo, mentre nelle aree ricche alimentano la paura di arrivi considerati destabilizzanti e diminuiscono le libertà di accesso.

“Io ho una visione piccola del mondo. Certo, leggo libri, vedo i TG e anche nei film mi capita di trovare notizie o testimonianze di migranti. So che migrare, quando non si ha una buona situazione economica alle spalle, è come partire verso la morte: non sai se arriverai sano e salvo oppure non riuscirai mai a vedere la tua attesa meta. Attraverso questi racconti mi è sempre stata chiara la sofferenza che si prova nel migrare. Ora capisco anche come è diverso quando a migrare sono persone “ricche” pur con tutte le difficoltà, i rischi e le sofferenze” (Mariarosaria, III E).

A questo punto del lavoro ci siamo interrogati sugli scenari futuri che vedranno anche l’intensificarsi dei flussi migratori, probabilmente coatti, a causa dei disastri climatici e ambientali.

Si è aperto il grande tema di quella che potremmo chiamare “migrazione sostenibile”, che fatto salvo il diritto di migrare (sancito, sia come migrazione interna che esterna, dalla Dichiarazione dei diritti umani del 1948), consideri regole di sostenibilità globale pure nei paesi che ricevono i flussi, tuteli il diritto anche a restare dove si è, prevenendo le migrazioni forzate. In una parola serve lungimiranza da parte di enti e governi e non improvvisazione, utile solo a rammaricarsi di non aver pianificato pur potendo.

A lavoro concluso, rivedendo le storie dei ragazzi, oltre quelle di Nelith ed Angela, altre sei raccontano di persone immigrate nel nostro paese dal Srilanka, dalla Georgia, dall’Ucraina. Sono storie di persone partite da situazioni di disagio economico e che sono riuscite a costruirsi una vita nella nostra città. Sono amate e rispettate nelle famiglie che hanno dato loro lavoro e sono state contente di raccontare le scelte, i sacrifici, le soddisfazioni. Aggiungerei che i racconti dei ragazzi, nella semplicità, hanno restituito loro la dignità e il riconoscimento che meritano: presenze indispensabili ma spesso invisibili nella loro individualità di persone.

“Oggi, Liliya lavora a casa mia da ormai 17 anni ed è felice; io penso perché noi le vogliamo molto bene e lei ci tratta come suoi figli.” (Nicole, III E)

“Io e Ana ci siamo divertiti tantissimo per questo progetto; è stata una buona occasione per parlare un po’ e farla aprire riguardo alcuni argomenti che forse tiene dentro di sé come in una cassaforte chiusa a chiave” (Luca II E)

“Ascoltare le loro storie è stato un momento di condivisione molto divertente e bello perché ci siamo seduti tutti a tavola per parlarne, ma nello stesso tempo è stato anche triste pensare a tutti i sacrifici che hanno fatto per cambiare così tanto la loro vita e lasciare la famiglia e il loro paese. Questa tristezza sono riuscita a vederla anche un po’ nei loro occhi malinconici mentre mi raccontavano dei momenti felici in SriLanka, ma quando poi hanno iniziato a raccontarmi di come le cose in Italia stanno andando bene i loro occhi brillavano di felicità e di conseguenza anche i miei” (Angela, II E)

Infine, anche quest’anno, la vocazione inclusiva, aggregante, affettiva di questo progetto è stata confermata, unita al piacere della scoperta dal basso che ci dona un micro posto nella macro storia.

Anche io mi sono cimentata nel racconto di una storia di migranti. Si tratta della storia della mia amica Marcella:

Marcella: una cittadina europea, di Valeria De Laurentiis