A Napoli, marzo-maggio 2020, di Letizia Cortini

Buongiorno…. sono stata indecisa se pubblicarlo. E’ una piccola sintesi di questo periodo, parziale, ma autentica nei bisogni e nei sorrisi espressi, negli abbracci a distanza. Ho pensato che potesse, tra privato e pubblico, donare tenerezza e mostrare da una fessura, uno sguardo su questo nuovo tempo. Un abbraccio a tutte e tutti e buona fase2… con cautela, ma anche con energia e nuove speranze, per voi e i vostri ragazzi! Per noi… Grazie…

Per una migliore visualizzazione si consiglia di cliccare sulla prima immagine, di apertura dell’album e di proseguire scorrendo con le freccette a destra

Al Rigo al tempo del Covid-19, l’Album di Emilia

Condividiamo con gioia il racconto, foto e testi, di Emilia Guidotti, un’amica, scrittrice e fan di Sguardi e Storie :). Grazie Emilia! [ndr]

Cliccate sulla prima immagine, la copertina dell’album, quindi proseguite con le freccette. Buona lettura e buona visione!

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Mi presento con una foto, l’unica che abbia, in cui sono ritratta bambina… certamente non abituata ad essere fotografata.

emilia_bambina

Sono un po’ impaurita nella foto, sempre timida, anche adesso… la bambina di allora la riconosco nella donna di oggi, perfino con i fiorellini in mano. Vivo nel bosco… vicino a un paese dell’Amiata e scrivo racconti, poesie, filastrocche. Ecco il mio parziale, un frammento, racconto visivo in questo periodo … grazie a voi per averlo accolto! Emilia 

Raccontare con la fotografia una giornata al tempo del Coronavirus, di Marianna Lembo

Marianna ha acconsentito a pubblicare il lavoro che segue sul sito del progetto Sguardi e Storie, per invitare i docenti e i ragazzi della scuola media Viale delle Acacie a cogliere il suo stimolante esempio, se vorranno [ndr].  Grazie Marianna!

mariannaritratto

 

Marianna Lembo è una giovane fotografa professionista.

 

Questo il suo sito professionale: Marianna Lembo photography

marianna

A seguire la riflessione di Marianna e le sue fotografie.

Sono Marianna. Vi propongo con piacere un piccolo lavoro svolto in questi giorni di quarantena; spero possa essere per qualcuno di voi un contributo efficace per ragionare su questo particolare periodo.

Scattare fotografie per me è sempre stato un piacere, fino a che un bel giorno ho deciso di prendere la cosa un po’ più seriamente….
Intendo l’atto del fotografare come una presa di coscienza sul mondo, non solo l’osservazione di esso, e con mondo intendo quell’insieme complesso di materia, emozioni, luoghi, persone da cui attingere per raccontare un pensiero o una storia.
Mai come in questo periodo il mondo è per me circoscritto a tre stanze milanesi; ed inizialmente la frustrazione era tanta, mi sentivo sommersa solo dai cattivi pensieri provenienti dalle notizie quotidiane. Una sorta di svuotamento che non riuscivo proprio a colmare con ciò che amo di più, la fotografia. Mi sono chiesta più volte: Come e cosa fotografare? Che progetti realizzare?

La risposta spesso è più semplice di quanto si pensi perché le storie in effetti sono ovunque intorno a noi, anche nella banalità di piccole cose.
E sono le piccole-grandi cose che abbiamo di fronte tutti i giorni a rendere il nostro sguardo più attento e disincantato, anche nei riguardi del mondo esterno.
Ho colto questo periodo di clausura forzata come un banco di prova per mettere in discussione le certezze che questa particolare situazione ha smontato in tutti noi.

In questa slideshow mostro una giornata “tipo” della mia quarantena, scandita a tempo di luci che cambiano, oltre di soggetti…

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Gwen e Lucia, di Maurizio Splendore

lucia_Gwendolyn

Si chiamano Lucia e Gwendolyn,
Napoli, Via Milano, corre l’anno 1948.
Sono sul balcone della casa dei miei nonni, il fotografo è mio padre, molto innamorato di Lucia e suo futuro sposo.
Non sono tanti i tre anni trascorsi dal più che tumultuoso evento che sfregiò il mondo e l’umanità intera, eppure pare non vi sia più traccia di ciò che entrambe avevano patito soltanto ieri.
E le bianche lenzuola distese fuori dai balconi della città sono la bandiera bianca che si arrende finalmente alla vita e, perché no, alla spensieratezza.
La Guerra… che follia.
Questa immagine farebbe mai pensare che le due giovani donne solo poco tempo prima erano su fronti opposti, inconsapevoli nemiche?
Gwendolyn (lei però si faceva chiamare Gwen), infatti, è appena arrivata dal Galles dove aveva incontrato un bellissimo giovane italiano, un prigioniero di guerra, zio Franco. Si innamorarono.
Si narra che quando lei arrivò finalmente a Napoli, appena scesa dal treno zio Franco si lanciò verso di lei ed entrambi si strinsero in un bacio appassionato creando uno scompiglio oggi difficile da immaginare. Gli avventori del momento assistettero dal vero a ciò che avevano forse solo visto in qualche film americano, strappando applausi, risate, stupore, meraviglia e, chissà, forse anche vergogna o addirittura sdegno, in qualcuno un po’ più timorato.
Se li aveste conosciuti avreste compreso subito che non poteva accadere diversamente.
Zio Franco non era propriamente mio zio, ma l’amicizia con mio papà Ulio è stato il più prezioso e inestimabile esempio di amicizia a cui abbia assistito e dunque, come minimo, lui doveva essere mio zio.
Senza questa piccola cornice avreste mai immaginato una cosa del genere? in fondo è solo la foto di due bellissime ragazze eppure sono l’immagine di due luccicanti mondi che si incontrano sul vasto oceano dell’amore.
Vi prego, non storcete il naso, perché credo che si tratti proprio di questo e non altro.
L’amicizia di Lucia e Gwen divenne da subito pari a quella tra mio padre Ulio e mio zio Franco.
Lucia non conosceva una sola parola di inglese e tanto meno Gwen l’italiano.
Ma non serviva.
Tirate voi ora la somma di questa storia, che sennò divento ancora più stucchevole.
Enjoy!
Napoli, 21 dicembre 2019

Tra Catania e Roma, tra il Carso e l’Etiopia. Tratti di una breve storia di famiglia, di Elena Musumeci

Raccontare la storia della mia famiglia paterna è molto difficile, perché ho solo dei vaghi ricordi della mia infanzia con loro.

Eppure, ripescando qui e là nelle poche immagini del passato, possono riaffiorare i volti di mia nonna Elda Mezzadri, di mio nonno Antonino Musumeci, e del mio bisnonno Leo Mezzadri che, seppur mai conosciuto, era una presenza costante in piccoli ritratti caricaturali di vari membri della famiglia, da lui effettuati.

Nelle ultime settimane questi volti hanno riacquisito una voce, colori, pensieri. Posso dire di aver avuto modo di conoscerli davvero riordinando le carte di famiglia recuperate dopo la loro scomparsa, e lasciate per molti anni all’umidità e alla muffa, in uno scatolone in cantina.

Questo lavoro è stato rivelatore di molte cose teoricamente note ma toccate veramente con mano ancora una volta: le carte rendono le storie vive, e questo viene incredibilmente amplificato nelle storie così vicine a noi. Storie familiari, ma che non conosciamo veramente mai a fondo. Assieme a questo ho capito anche il perché in pochi, anche tra gli archivisti,  riordinano le proprie memorie di famiglia.

Il passato a volte può essere molto più complicato del presente.

Nella foto qui sotto, in cattedra, è ritratto frontalmente mio nonno, Antonino Musumeci.

nonno

Mio nonno era nato a Catania nel 1909 ed era un professore di matematica. Me lo ricordo in occasione di un solo incontro, in Sicilia, quando io avrò avuto all’incirca 9 anni e mia sorella Marina sarebbe nata da lì a poco. Nei miei ricordi è un signore alto e distinto, con un bastone da passeggio. Andammo a comprare il pane, dei panini col sesamo, e tutti lo chiamavano “professore”, il che mi fece sentire parte di una stirpe molto importante, anche se per me semisconosciuta.

Antonino Musumeci fu tenente dell’Esercito Regio in Africa. Aveva frequentato la scuola per allievi ufficiali ad Addis Abeba ed era a capo di combattenti àscari. Quando vi fu la conquista britannica dell’ Africa Orientale Italiana, fu fatto prigioniero e condotto in Kenya, dove rimase per molti anni, dal 1941 al 1947. A questo link un sito specifico ricostruisce la storia dei campi di prigionia inglesi in Kenya, ma non ho trovato il nome di mio nonno.

nonno

Una parte importante delle sue carte è costituita da una serie di lettere inviate e ricevute in questo suo lungo periodo di prigionia.

lettera

Per 6 anni le sue lettere riportano lamentele  per la sua salute cagionevole e alcuni interventi chirurgici subiti nel campo di detenzione, per il fatto di non ricevere notizie da casa, per il trattamento discriminante che diceva di ricevere in quanto italiano, e purtroppo a ciò si aggiunge una considerazione non sempre lusinghiera riguardo la popolazione locale, che credo fu frequente in chi ebbe parte in quell’esperienza, e che dunque deve essere stata comune di molti italiani – e non solo – in Africa, durante il colonialismo e la guerra.

Riuscì fortunatamente a tornare vivo a Catania nel 1947, e si riunì alle sue vecchie compagnie di gioventù. Qui incontrò mia nonna, Elda Mezzadri.

nonna

Mia nonna apparteneva a una famiglia della piccola borghesia catanese. Il padre, Leo Mezzadri, era stato anch’egli un soldato. Avevano vissuto qualche anno a Roma, in Viale delle Milizie – come risulta dalla corrispondenza degli anni del Fascismo – e poi erano tornati nella loro città natale durante gli anni della guerra. Mia nonna era abbastanza corteggiata, stando a quanto si può leggere nelle sue lettere.

Elda e Antonino si sposarono, nel 1951, e si trasferirono a Brescia, dove lui era stato inviato come insegnante.

nonna e nonno

Qui nel 1953 nacque mio padre, Mario Musumeci, e furono inviati molti telegrammi di auguri per la sua nascita.

mario musumeci

Tra questi spiccano i biglietti con le poesie del bisnonno Leo Mezzadri, con il quale mio padre Mario aveva un rapporto molto stretto e affettuoso.

bisnonno e mario

Il bisnonno Leo era stato dapprima un sottoufficiale degli Alpini, e come soldato aveva vissuto in molte città.

Aveva anche ricevuto delle onorificenze per aver combattuto sul fronte del Carso durante la Prima Guerra Mondiale.

attestato

Prima della guerra era stato direttore di un giornale locale “La Provincia di Mantova”, e aveva una spiccata inclinazione per la scrittura.

giornale

Era un uomo molto creativo, e ci sono moltissimi suoi componimenti scritti che venivano richiesti anche per propaganda pubblicitaria, oltre che turistica.

componimento

Poco dopo la famiglia lasciò Brescia e tornò a Catania, dove mio padre passò tutta la sua infanzia.

Purtroppo, il matrimonio tra mio nonno e mia nonna non ebbe l’esito sperato, e i due si separarono alla fine degli anni ’60.

Dopo qualche anno, nel 1971, mia nonna raggiunse a Roma mio padre che si era iscritto all’Università La Sapienza, e trovò una casa nel quartiere Cinecittà.

Da bambina io la conobbi abbastanza bene. Mi era molto simpatica anche se non mi dava troppa confidenza. Non era molto felice, e si rinchiuse per molti anni in casa senza uscire quasi mai. Ricordo però che partecipava da casa a moltissimi quiz televisivi, e ogni tanto vinceva gettoni d’oro. Inoltre era una lettrice compulsiva di cataloghi postalmarket, di cui restano moltissime testimonianze tra le sue carte a partire dagli anni ’70, assieme a copie di periodici di gossip e altre riviste di casalinghe e ricette.

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Mio nonno si risposò con una vecchia amica in comune delle comitive catanesi di gioventù, la “zia” Gemma, venuta a mancare di recente.

I miei nonni morirono in due città diverse, a tanti chilometri, ma a pochi anni di distanza, nel 1990 e nel 1993. I miei ricordi di loro sono molto vaghi. Ma Le foto e le carte di questo piccolo archivio di famiglia mi hanno permesso di conoscerli meglio, e sono il filo di una piccola narrazione tra tante, che attraversa tutto un secolo, il ‘900, e tramite cui si può ricostruire una parte della nostra storia comune.

Elena Musumeci, archivista, vive e lavora a Roma.

 

Pistole e margherite. Ritratti femminili tra gli anni ’20 e ’30, della prof.ssa Blandina Comenale

Sono cresciuta in una famiglia di donne.

Non perché gli uomini non ci fossero, né perché fossero in minoranza numerica. Le ragioni della mia affermazione non si devono ricercare nella matematica. Era più una questione di percezione. La sensazione che fossero le donne a essere anima e collante della famiglia. Una sensazione che non saprei nemmeno motivare con solide argomentazioni: se ripenso alla mia infanzia, le donne del lato materno della mia famiglia non erano nemmeno tante. Mia mamma ha due sorelle e ben cinque fratelli. Poi c’era nonna Nicolina. E un numero poco precisabile di cugine di nonna, cugine di mamma, cugine mie. Quello che forse ha reso la loro presenza tanto significativa nel mio immaginario è stata la loro capacità di tessere una rete di sicurezza, dei collegamenti invisibili che hanno formato una sorellanza che va oltre le generazioni e le diversità. Soprattutto oltre le diversità. Credo proprio che la capacità di restare vicine e solidali, usando le proprie differenze come un completamento e non come causa di distanza, sia stato il principale punto di forza delle donne della mia famiglia che, diverse ma sempre compatte, hanno affrontato insieme circa un secolo di vicissitudini personali e storiche.

Mi rendo conto che fino a questo momento ho ricordato per nome solo una di loro, nonna Nicolina. Ed è proprio da una sua foto che voglio partire. Nonna Nicolina era nata il 27 dicembre del 1913.

Nicolina

Era consuetudine, negli anni 20 e 30, che le ragazze le cui famiglie ne avevano la possibilità si facessero ritrarre da un fotografo. Le foto venivano scattate nello studio o, come nel caso della foto di mia nonna, a casa del committente, in un ambiente ricreato ad arte dagli sfondi mobili portati dal fotografo. Spesso queste foto erano destinate a essere donate al promesso sposo. Solitamente ritraevano la ragazza a figura intera, in una posa composta che, nel tentativo di mimare la naturalezza della quotidianità, risultava in verità piuttosto artificiosa e fissa. Nella foto venivano inclusi oggetti comuni, che però avevano un loro preciso linguaggio. Il più delle volte le giovani posavano accanto ad arredi domestici, ad indicare quale fosse il loro posto nel mondo, e tenevano fra le mani un oggetto, anch’esso portatore di un significato: un fiore, ad indicare semplicità e purezza, o talvolta uno strofinaccio ben pulito che simboleggiasse la diligenza nel tenere in ordine la casa.

Nel caso di mia nonna Nicolina, devo dire che il fotografo ha saputo guardare lontano: nella foto riconosco lo stesso stile, lo stesso abbigliamento, la stessa pettinatura, la stessa sobrietà, la compostezza quasi severa, lo stesso sguardo sereno un po’ distaccato dalle cose del mondo, che sono stati tipici di mia nonna per tutti i giorni dei suoi cento anni di vita. Mia nonna aveva anche un sorriso bellissimo, ma ha imparato a concederselo più spesso solo nei suoi anni più recenti.

Ci sono poi i ritratti delle sue due sorelle, entrambe maggiori di lei di qualche anno. Io non le ho mai conosciute, quindi non saprei dire in che misura quello che raccontano le foto sia rispondente a verità.

la sorella di Nicolina
un’altra sorella di Nicolina

Di certo, pur nella diversità di stile e di temperamento che in certa misura influenza le pose e gli sguardi, abbiamo altri due esempi di foto posata, codificata secondo un insieme di convenzioni.

Ma poi c’è zia Rosa. La cugina di mia nonna e delle sue sorelle. L’increspatura sulla superficie, il salto nella partitura, l’inciampo, il singhiozzo, l’elemento che interrompe il discorso convenzionale.

Zia Rosa era nata il 6 gennaio del 1903 e nella foto ha approssimativamente la stessa età che hanno le sue cugine nelle loro. Anche lei è ritratta a figura intera, in piedi, un po’ a tre quarti, come loro. Non so se questo ritratto sia opera di un fotografo o di un parente con l’hobby della fotografia. Fatto sta che c’è qualche evidente differenza… niente margherite fra le mani, niente sedie di Vienna, niente pose composte.

zia Rosa

Il braccio destro teso, una pistola in pugno, il dito sul grilletto. Un abitino estivo di cotone bianco, di taglio quasi infantile, innocente, diverso dai completi sobri e scuri delle cugine, sembra sottolineare ancora di più quella pistola. Lo sguardo però è verso la macchina fotografica: non sta prendendo la mira, sembra piuttosto dire “non sto per spararti davvero, è un gioco, ma volendo ne sarei capace”.

Di zia Rosa – che è mancata nel 1997, quando io avevo quasi 18 anni – conservo il ricordo di una donna anziana, molto minuta, coi capelli candidi sempre raccolti e gli occhi chiari sempre vivaci, vigili, acuti come spilli. L’aspetto fragile non nascondeva la tempra d’acciaio. Eppure una costante delle nostre visite a casa sua erano gli zuccherini alla frutta che aveva sempre per noi bambini in un vaso di vetro sul comò della sua stanza. Questa foto invece mi è capitata sott’occhio quando lei già non c’era più da tanto, e mi ha acceso una sorta di riflettore su un piccolo mistero.

Sia lei che nonna Nicolina le ho sempre conosciute vedove. Di nonno Autari conosco il nome, la storia, ho visto tante sue foto e ascoltato tanti aneddoti importanti, minimi, commoventi, buffi, che è quasi come se lo avessi conosciuto di persona. Potrei dire lo stesso dei suoi fratelli Camillo, Vittorio, Corrado, anche se non ho incontrato nessuno di loro.

Forse una volta da bambina ho chiesto dove fosse il marito di zia Rosa, perché i bambini queste cose le domandano. E mi sarò sentita rispondere un generico “è morto”. Solo recentemente ho realizzato che di questa persona non so nulla. E con “nulla” intendo dire che di lui non ho mai visto una foto, non ho mai sentito parlare, non ho mai sentito nemmeno pronunciare il suo nome di battesimo. Se non fosse per il cognome che ha lasciato all’unica figlia, potrei anche dubitare che sia mai esistito. Da voci rubate qua e là nei discorsi quasi furtivi di parenti vari, ho ricostruito che zia Rosa, la piccola e minuta zia Rosa, deve averlo in qualche modo mandato via da casa. E per arrivare a fare un gesto così abnorme nei patriarcali anni 30 o 40 di un piccolissimo paesino perso tra i monti e i boschi del Cilento, devo supporre che quest’uomo si sia reso colpevole di comportamenti assolutamente inaccettabili. A rafforzare questa ipotesi, la totale damnatio memoriae che sembra aver affetto la sua figura: in una famiglia accogliente e aperta a qualsiasi stravaganza (compresa quella di adottare un leoncino nato allo zoo e rifiutato dalla mamma, tanto per fare un esempio), colpisce molto che una persona sia stata cacciata via dalla quotidianità e perfino dai ricordi. Insomma, la ragazza con la pistola, volendo, sarebbe stata capace di sparare.

Rosa e Nicolina

Mi piace concludere questa piccola carrellata con una foto dei primi anni 80. A sinistra c’è Rosa, a destra Nicolina. La ragazza con la pistola e la creatura sobria e quasi angelica. Negli anni hanno condiviso spesso viaggi e pellegrinaggi, e la foto è stata scattata in occasione di uno di essi. Ironia della sorte, posano fra cannoni e palle di piombo. Ma stavolta nessuno ha voglia di sparare, nemmeno per gioco. Sono sopravvissute a guerre e a dolori che hanno più volte mandato all’aria le loro famiglie e la loro tranquillità. Ma loro sono lì, insieme. Fissano l’obiettivo: obliqua e un po’ ironica Rosa, ferma e incrollabile Nicolina. Due donne diverse, ma ciascuna a suo modo, acciaio.

Vacanze “settanta”, di Massimo Canario

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La data sulla destra della foto dice settembre 1970 ma certamente lo scatto è dell’agosto precedente e la location, come si direbbe oggi, il Trentino, verosimilmente la Val di Non, perché, se non ricordo male, lì in quegli anni passavamo le vacanze di agosto.
Allora le scuole chiudevano a giugno e per molti ragazzi ciò segnava l’inizio delle vacanze che si sarebbero protratte fino a tutto settembre: chi possedeva una casa in una località marina si trasferiva lì e lasciava i bambini con le mamme, quando non lavoravano, o con i nonni. Nel nostro caso erano tre zie, le sorelle di mio padre, che ci ospitavano da metà giugno a fine luglio in Puglia, vicino Ostuni.
Dopo un mese e mezzo di mare tornavamo alla base, Roma, per spostarci in montagna.
Il Trentino e l’Alto Adige sono state le nostre mete preferite: solo qualche anno le tradimmo per la Val d’Aosta, ma era qualche anno più avanti.
La Val di Non quindi e per la precisione un paesino che si chiama Malosco, pensione Negritella. Non è che mi ricordo tutto a memoria, ma appunto le foto aiutano. E poi, una ventina di anni fa decisi di tornarci, anche se solo di passaggio, proprio per rivedere i posti che ci avevano ospitati da piccoli.
Questa foto la conserva mia zia, una sorella di mamma, e quindi ho pensato potesse averla scattata mio padre, ma non ne sono sicuro, soprattutto perché papà non fotografava quasi mai. E questo, oltre che per scarsa passione, perché avevamo, per così dire, il fotografo ufficiale delle vacanze.
Era il papà di Barbara, la protagonista femminile della foto, il mitico Gastone. Me lo ricordo sempre con due tre macchine fotografiche appresso, che cambiava gli obiettivi e soprattutto chino sulla sua altrettanto mitica rolleiflex Tessar e a segnare su un blocchetto notes data e soggetto della ripresa.
Rivedo la foto e immagino dovesse fare parecchio freddo. In quegli anni non era una rarità. Mi ricordo di un’estate, al Passo San Pellegrino, tra val di Fiemme e val di Fassa, il 15 di agosto ci fu una nevicata incredibile, per la gioia di noi ragazzini.
Allora non lo percepivo ma oggi posso dirlo: sono stato un ragazzino fortunato. Passare i mesi estivi in quel modo, senza campi estivi, prima al mare e poi in montagna mi aiutava molto ad affrontare un nuovo anno.