Alessandra Stasio

Ho scelto una foto che ritrae mio nonno Adolfo Mollichelli, agli inizi della sua carriera di giornalista.

Mio nonno materno, Adolfo Mollichelli, era un giornalista. Ha incominciato a lavorare al Roma nel 1967 e in seguito, dal 1976, a Il Mattino .

Questa foto è stata scattata da un fotografo del giornale Roma ed era nel 1967, quando mio nonno intervistò Silvio Piola, leggenda del calcio italiano che in quel momento era a Napoli per un convegno.

Quest‘intervista ha segnato un inizio importante per la carriera da giornalista del nonno e ancora oggi questa foto è conservata accuratamente nel cassetto del suo studio.

Quest’incontro, rappresentato nella foto, ha costituito motivo d’orgoglio per mio nonno perché non era da tutti poter intervistare da solo, viso a viso, un tale personaggio.

Il giorno dopo l’intervista, mio nonno ebbe i complimenti da Piola per la correttezza e l’umanità che trasparivano dall’articolo pubblicato. Ci sono stati casi in cui, approfittando della mancanza di testimoni, l’intervistatore ha travisato il senso di alcune risposte dell’intervistato, o addirittura le ha inventate.

Gran parte dell intervista è stata dedicata ai ricordi del passato di questo grandissimo giocatore che fu autore di una celebre rovesciata immortalata in una fotografia pubblicata su tutti i giornali dell epoca: era il 1939

Un padre, un ex-studente, un ex-sportivo, un professore, di Arturo Grassi

Ho deciso di raccontare la storia di mio padre perché mi interessa il punto di vista di un insegnante sul mondo.  Mio padre è una persona dinamica e vivace mentalmente. I miei compagni dicono che è bravissimo a preparare toast e panini. Per raccontare di lui lo ho intervistato e ho rivisto la sua vita dalla sua infanzia ai giorni d’oggi. Lui è un insegnante di economia alla Federico II. Ecco la trascrizione dell’intervista.

Ti ricordi qualcosa di quei tempi? È un bellissimo scatto del 1977 ca; mio padre è sulle spalle del nonno.

Questa foto deve essere del 1977 circa; quindi, ero oggettivamente troppo piccolo per ricordare qualcosa. All’epoca stavo a casa, molto con la tata, perché tutti e due i miei genitori lavoravano. Mio padre (tuo nonno) insegnava a scuola. Da quanto mi hanno raccontato, era molto attivo in politica: era il presidente (o il segretario) di una sezione napoletana di quello che allora si chiamava Partito Comunista. C’è anche un libro, mi pare di Ermanno Rea (che è un importante scrittore napoletano) in cui si parla di sfuggita di lui. Insomma non stava mai a casa. Mamma (tua nonna) era più presente, ma lavorava tantissimo tra università (dove insegnava matematica finanziaria) e lezioni private a casa. Insomma, io stavo sempre con Filomena, la tata, che era una signora che all’epoca mi sembrava vecchissima, ma probabilmente non lo era, e che pregava sempre tanto. Giocavamo a scopa.

Che ricordi hai di questi giochi in foto? È una foto scattata da me di giocattoli trovati in un cassetto. Li usavi negli anni dal 1978-1982. Sono giocattoli dell’epoca, i tuoi preferiti: due Goldrake e un Grande Mazinga.

Me li ricordo benissimo. Non è un caso che ce li abbia ancora dopo 40 anni! A fine anni 70, io avevo circa 4 o 5 anni, in Italia furono trasmessi in televisione, per la prima volta, i cartoni animati giapponesi, che tu adesso chiami come “Anime”. Quelli furono i primi giochi che mi regalarono. Il primo in assoluto fu il pupazzetto di Mazinga Z.

Guardavi anche altri cartoni animati?

Bella domanda. Io, come tutti i miei coetanei, adoravo solo i cartoni giapponesi, perché erano qualitativamente migliori e dirompenti nell’immaginario di un bambino dell’epoca. Tutti collezionavamo i giocattoli dei robot. Visti oggi alcuni di quei cartoni sono noiosi e ripetitivi; ma ce ne sono altri, per esempio Conan di Miyazaki, che sono oggettivamente dei capolavori assoluti e senza tempo, a mio giudizio (e non solo mio) allo stesso livello della più grande letteratura per ragazzi.  Ebbero probabilmente un impatto maggiore sulla mia generazione. Pochissime ragazze della mia età hanno letto Piccole Donne. Tutte hanno visto Candy Candy  (Che comunque è molto peggio di Conan di Miyazaki).

Ti ricordi quale partita era? questo scatto è stato realizzata probabilmente da tuo fratello Siro, nel 1989 a Caserta durante una partita di basket (Phonola Caserta- Partenope). Al centro, in aria, ci sei tu.

Certo. Se mi sforzo ricordo tutte le partite che ho giocato in vita mia! Quella è un’amichevole contro la Phonola Caserta al Palamaggiò, nel 1989. Avevo 14 anni e giocavo nella Partenope, che all’epoca era la squadra più forte di Napoli. In Campania la squadra di Caserta era più forte di noi e ci batteva sempre alle finali regionali. Quell’anno andammo anche a fare le finali nazionali a Monza, vicino Milano. Il basket aveva un ruolo centrale nella mia vita all’epoca (e anche negli anni successivi, in realtà!). Io ero molto, molto bravo. Ero una guardia.

Com’era il basket in quegli anni?

A fine anni 80 stava finendo il decennio in cui in NBA avevano dominato i Lakers di Magic Johnson e i Boston Celtics di Larry Bird. Erano entrambi giocatori fortissimi. E stava iniziando l’era di Michael Jordan dei Chicago Bulls. In Italia, le partite le trasmetteva una volta a settimana Italia 1, la domenica mattina alle 11. Per me era un problema perché a quell’ora andavo in chiesa. Come forse ricorderai, i tuoi nonni sono valdesi e mi hanno dato quel tipo di educazione. Io, francamente, avrei preferito guardare l’NBA. In Italia invece dominava Milano. Napoli giocava in seria A e aveva una bella squadretta, che io andavo a vedere al palazzetto tutte le domeniche. Anche Caserta era molto forte e avrebbe poi vinto lo scudetto nel 1992: prima e unica squadra del sud a farlo. E poi nel 1992 ci furono le olimpiadi con la squadra di basket più forte di tutti i tempi: il dream team americano. Era la prima volta che i giocatori NBA andavano a giocare alle olimpiadi. Vinsero tutte le partite con almeno 30 punti di margine e senza chiamare neanche un time out.

Cosa pensi del tuo look in questa foto? È’ una fototessera del 1995

Questa foto risale ai miei anni all’università. Avevo i capelli lunghi, probabilmente per distinguermi dai compagni di corso a Economia, che francamente mi stavano tutti antipatici. All’epoca non mi piaceva tanto quello che studiavo; ci ho messo un po’ di tempo per realizzare quanto sia importante la comprensione e la conoscenza dei meccanismi economici nella società contemporanea. Soprattutto in Italia, dove la maggioranza delle persone non sa neanche chi sia un economista.

In che anni studiasti all’università?

Sono stato all’università negli anni 80, dal 1983 al 1988 e studiai economia.

Non c’era nessuno simpatico all’università?

Tutti i miei amici frequentavano Lettere e Filosofia e anche io stavo spesso in quella zona. Considera però che durante gli anni dell’università io principalmente studiavo tantissimo (e giocavo a basket).

Quindi è da lì che ti vengono i tuoi attacchi filosofici?

Non credo. È proprio la mia indole quella. In realtà tra tutti i miei amici l’unico che realmente fa filosofia sono io. Il ruolo del filosofo nella storia è sempre stato quello di “consigliere del principe”, oppure di “interprete della realtà”. È esattamente quello che fa l’economista. Ogni volta che c’è una crisi politica, a risolverla viene chiamato un soggetto esterno, che in Italia è sempre stato un economista. Sicuramente ti ricorderai di Mario Draghi. Ma prima di lui c’era stato Monti, prima ancora Ciampi. Tutti economisti. Vedi: ho iniziato un altro attacco filosofico. Potrei parlare per ore!  A proposito non chiamarli attacchi, chiamali “excursi” è più cool.

Come stava andando il campionato a quei tempi? Vedo che avevi fatto più punti di tutti gli altri. Ti ricordi quella partita? Ho trovato questo trafiletto di giornale del 2004 (circa). Partita Downtown – Mizar, campionato di basket. 30 punti Iacopo Grassi.

Certo che me la ricordo. Era il 2004, ero ormai a fine carriera dopo aver giocato anche in serie C. Era una partita di Promozione, una delle categorie più basse e in quella partita ci giocavamo il primo posto. Io ero veramente molto più forte degli altri. Quell’anno vincemmo il campionato e l’anno dopo giocammo in serie D, che è un campionato regionale.

Perché sei sceso dalla C alla D?

Perché in C è quasi professionismo e io studiavo. E soprattutto non mi divertivo a fare allenamento tutti i giorni. Si prendevano tutti troppo sul serio, alla fine questi sono solo dei giochi. Comunque la D era un buon livello.

Ti ricordi quel paper di cosa parlava? E per chi l’hai scritto? Ho fotografato il Certificato di Miglior Paper per la rivista “Economic Research on Copyright Issue” nel 2014.

Era un paper che avevo scritto da solo, a inizio anni 10. Tu eri già nato! Sulla pirateria musicale. Considera che ci vogliono anni per scrivere un paper, in genere. Quello è il premio assegnato da una rivista scientifica internazionale al miglior paper pubblicato quell’anno. Non c’erano molti paper in verità, per questo ho vinto! Però mi diedero anche dei soldi e mi invitarono a Glasgow in Scozia, dove c’era il convegno dell’associazione legata alla rivista.

Ci sei andato?

Certo, e vi portai anche dei peluche, degli orsacchiotti con la bandiera e la maglietta scozzese.

Dove eri in questa foto col grattacielo sullo sfondo? Mezzobusto di mio padre in primo piano con un grattacielo in secondo piano. 2017 Tokyo durante le vacanze estive. Autore della foto: mia madre, Federica De Stefano.

Queta foto è recentissima! È del 2017, agosto. Eravamo in Giappone a Tokyo e quello è il grattacielo in cui c’era l’hotel dove dormimmo l’ultima notte. Dovresti ricordartelo: ci regalarono anche i vostri pigiami!

Ci sei andato solo per vacanza in Giappone?

Sì, per ora. Dovrei trovare un convegno dove mi invitano, ma non è facilissimo col Giappone!

Quando vi siete sposati tu e mamma? Questi sono scatti dal matrimonio

Mi pare il 2 luglio del 2012 (ma ti prego non dire a tua madre che ho detto “mi pare”). Sicuramente faceva molto molto molto caldo. Tu e tuo fratello eravate già nati e tu sei stato tutto il tempo della cerimonia in braccio a me. Ci siamo sposati nella sala del Maschio Angioino, mi pare si chiami la sala dei Baroni. La cerimonia è stata officiata (che vuol dire “fatta”) da Massimiliano, il nostro amico, quello bassino, il papà di Gingia e di Leila. Massimiliano ci ha fatto a conoscere a me e a tua madre quando io ero tornato dal dottorato in Spagna. Durante la cerimonia chiese a tua mamma “Federica, sei proprio, ma proprio sicura, di voler sposare Iacopo?” e lei rispose “Ebbene sì”. Poi siamo andati a fare la festa in un agriturismo vicino Napoli e ci siamo divertiti molto.

Cosa ti ricordi dell’università come studente?

Non mi piaceva molto all’inizio, perché alcune materie erano davvero noiose. E suppongo lo siano ancora. Tipo ragioneria, diritto; non mi piacevano, non ne capivo il senso. Poi ho iniziato a studiare Economia Politica, statistica e matematica che secondo me hanno molto più senso. O almeno mi piacciono! Questa foto l’ha fatta mio fratello il giorno della mia laurea. Si vede tutta la commissione. La tesi di laurea era in Scienza Delle Finanze e si intitolava “Il prezzo di accesso nel mercato delle Telecomunicazioni” che sembra una cosa molto seria. In realtà non mi ricordo benissimo cosa ci scrissi, però piacque molto alla commissione! Alla mia laurea c’erano tutti i miei amici veri. Alcuni li vedo ancora, per esempio Dario e Marinella, altri li sento spesso, per esempio Claudia che adesso vive a Bologna, altri li ho un po’ persi di vista, ma comunque gli voglio bene!

E adesso com’è insegnare?

Uhm… L’insegnamento rappresenta solo una piccola parte del lavoro di professore universitario che consiste soprattutto nella stesura di paper, nella partecipazione a seminari e convegni. La docenza, per quanto mi riguarda, è la parte più divertente soprattutto quando ho classi di 200 e più persone. Praticamente è come fare l’attore a teatro e a me piace studiare battute, pause ad effetto e raccontare aneddoti. Insomma lavorare sui testi. Per esempio a volte chiedo a te e a tuo fratello di cantanti trap e videogiochi per sembrare aggiornato. Ma ci sono anche i corsi con meno studenti (una ventina) e quelli con molti, molti meno studenti (anche solo un paio), che poi sono i corsi della specialistica.

Per finire: com’era il tuo rapporto con zio Siro da piccoli? In questa foto, lui ti abbraccia in un prato e le vostre espressioni sono tenere!

Sicuramente diverso da quello tra te e tuo fratello! Siro è oltre dieci anni più grande di me quindi in realtà non l’ho mai conosciuto quando lui era piccolo. Mi ricordo che all’asilo io tornavo a casa sempre accompagnato dai genitori di una mia compagna di classe che abitava nel nostro palazzo perché i tuoi nonni non potevano venire. Una volta mi impuntai che doveva venirmi a prendere uno della mia famiglia e mi rifiutai di tornare a casa. Per qualche strano motivo a scuola acconsentirono a questo mio capriccio e chiamarono a casa. Da casa venne a prendermi mio fratello e io pensai “E’ vero, anche lui è uno della mia famiglia!”. Probabilmente lo realizzai solo allora. Del resto quando io avevo 4 anni lui era un quindicenne liceale. Comunque Siro è un po’ come tuo fratello, non parla molto in generale. Però io so che c’è. Ed è importante. E ovviamente io ci sono per lui. Ma un medico è più utile di un economista!

Storia di Elena, una conversazione tra madre e figlia, di Valeria De Laurentiis

Valeria De Laurentiis ha pubblicato, precedentemente, una storia parziale della sua famiglia, raccontando dei suoi nonni materni, Mena e Peppe, che qui sono spesso ricordati dalla madre Elena [N.d.R]

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Ho proposto a mia madre, Elena, di farsi intervistare per il progetto Sguardi e storie, utilizzando alcune foto dell’archivio di famiglia.

All’inizio l’ho vista perplessa ma di fondo emozionata all’idea di raccontarsi; chiedeva “Perché?” “Proprio io?” e “Chi potrà interessarsi alla mia storia?”. Allora ho cercato di spiegarle cosa è un sito web e come la sua narrazione avrebbe fatto parte di un racconto collettivo di storie personali ma nello stesso tempo partecipi della storia del ‘900.

Non credo abbia capito davvero di che si tratta come accade quando mi chiede spiegazioni su alcune funzioni del telefono cellulare con cui mi vede armeggiare. La tecnologia rimane per lei una sorta di magia inspiegabile, ma ha accettato di buon grado l’idea dell’intervista perché narrare di sé, rievocare persone e momenti attraverso le foto, credo sia un profondo bisogno per chi ha la fortuna (non certo priva di disagi e tristezze) di invecchiare.

Abbiamo dedicato diversi pomeriggi a guardare foto, riportare alla memoria momenti: lei presa dal filo dei ricordi che si dipanavano in ordine sparso o, a volte, inaspettatamente strutturati; io a incalzare con le domande e a seguire le sue emozioni.

In questi scatti, nella cucina di casa mia, perfino munita di lente d’ingrandimento, è quasi incantata; guarda sorridente le immagini mentre i racconti riaffiorano:

Cominciamo a dire chi sei

 Mi chiamo Elena Loffredo e sono nata a Napoli, il 1° gennaio del 1929. Ho novantaquattro anni, quasi un secolo..

Fa un bel sorriso e un guizzo di sorpresa le attraversa lo sguardo

Cosa ti ricordi dei primi anni della tua vita?

Abitavamo in via Macedonio Melloni, a Napoli, nel centro storico, zona piazza Carlo III

La mia famiglia allora era composta dai miei genitori, Giuseppe e Filomena (Peppino e Filume’), due sorelle, Maria (nata nel 1924) e Cristina (nata nel 1927), un fratello, il maggiore, Luigi (nato nel 1922).

Queste due foto, come molte delle altre che utilizzeremo, le abbiamo trovate in un cassetto di una libreria nella casa dei nonni, destinato a raccogliere le foto accumulate nel tempo. Nella prima, Elena è in braccio alla mamma, Mena, al balcone di casa e guardano verso il fotografo che le riprende da un altro balcone, senza riuscire ad evitare il primo piano della pluviale. Mena sorride mentre Elena guarda incantata verso l’obiettivo stringendo con una mano una ciotolina. Nella seconda è al centro della foto, minuscola figura intera in primo piano, sullo sfondo di un muro urbano, scrostato e attraversato anche qui da una immancabile pluviale. Sorride all’obiettivo, abbastanza naturale nonostante sia stata messa in posa rigidamente.

Queste sono le foto più antiche di te che abbiamo. Nella prima dovevi avere meno di un anno, nella seconda forse due, quindi le possiamo datare tra il 1929 e il 1931. Ti ricordi qualcosa?

Ero troppo piccola; mi ricordo però che in famiglia si raccontava che ero molto bella e proposero ai miei genitori di iscrivermi ad un concorso di bellezza, ma mio padre non volle. I miei primi ricordi risalgono a quando frequentavo le scuole elementari.

È timidamente orgogliosa della sua bellezza mentre cerca di riconoscersi nei lineamenti di bimba. Scegliamo allora altre due foto che risalgono agli anni delle elementari

Sono due foto tenerissime in cui Elena è ritratta con le sorelle: nella prima, del 1935 ca., è con Rita, la minore delle sorelle, e nella seconda, datata 6 marzo ‘938, XVI, con Maria, la maggiore. Queste due foto, che guardavo anche da bambina, mi hanno sempre colpito molto. Non portano indicazione di uno studio fotografico, ma entrambe esistono in più copie; la seconda fa parte di una serie di quattro foto scattate nello stesso giorno. Probabilmente, pensiamo, che l’autore potrebbe essere il fratello minore del nonno Peppe, zio Mario, allora poco più che ventenne, appassionato di fotografia. Chiunque sia stato, soprattutto nella prima foto, è riuscito a cogliere quella che ai miei occhi è l’essenza dell’infanzia in quegli anni: due bambine, Elena a sinistra, seria e concentrata, allunga il braccio per abbracciare la sorella Rita che mostra uno di quei sorrisi spontanei e gratuiti propri solo di un bambino; i grembiulini che si indossavano in casa, il taglio dei capelli tipico di quegli anni, restituiscono simultaneamente la tenerezza di un’infanzia semplice, che si contentava di poco per essere felice. Nell’altro scatto, sullo sfondo di un esterno sfocato, in cui Rita è sostituita da Maria, si ripete lo stesso gesto invertito, stesso taglio delle figure; i sorrisi delle sorelle sono appena accennati e Maria guarda un punto lontano. Elena ricorda bene il cappottino che indossava, rosso con il colletto di pelliccia.

Vediamo queste due foto, risalgono a quegli anni

Le guarda intenerita e inizia un lungo racconto

Ci eravamo trasferiti in un altro quartiere, Forcella. Mio padre lavorava con suo padre, Luigi, che aveva fondato casa editrice e libreria. La sede dell’azienda di famiglia era in via San Biagio dei Librai n. 2, in un palazzo del 1400, Palazzo Carafa. Mio padre lavorava con i fratelli Mario e Giovanni. Prima di loro il nonno era stato in società con la famiglia Rondinella, di cui faceva parte un suo cognato. Rondinella-Loffredo si occupavano di editoria sacra, ma da quando io ho memoria la casa editrice Loffredo ha sempre stampato e venduto libri scolastici anche di livello universitario.

Quando ci trasferimmo a Forcella noi fratelli e sorelle eravamo diventati otto. Erano nati Rita (1930), Enzo (1932), Alfredo (1934), Gianni (1936). La nostra casa era grande, composta da otto stanze e vivevano con noi anche la madre di mia madre, nonna Maria, con un fratello e due sorelle di mia madre, Gigino, Ida e Teresina. Più tardi Ida e Gigino si sposarono e andarono via ma prima di quel momento la loro presenza creava continue tensioni. Abitammo in quella casa fino allo scoppio della guerra e poi nel ’43 sfollammo a Torre del Greco.

Noi bambini andavamo a scuola accompagnati da un impiegato della libreria, Eugenio Ferrara, poi al ritorno ci fermavamo lì e infine tornavamo a casa sempre con uno degli impiegati. A casa avevamo una stanzetta dove studiavamo arredata con un grande tavolo e una libreria. Eravamo dei soldatini: silenziosi e ubbidienti.

Mia madre cuciva i nostri vestiti, perfino la biancheria intima. Le scarpe le compravamo difronte alla libreria dove c’era una fabbrica che era anche un negozio, quello del sig. Villani, cerimonioso e gentile. Mamma cucinava per tutti noi. La domenica si mangiava carne ma mi ricordo, al ritorno dalla scuola, spesso la pasta e fagioli. Nel vicoletto su cui affacciava la cucina di casa, passava un venditore di pesce che dava la voce. Allora mia madre calava il paniere e comprava il pesce, spesso alici. La signora dirimpettaia, che certo non era napoletana, faceva come mia madre, ma aveva l’abitudine di urlare al venditore “dammli buoni” con un accento che ci faceva ridere e che le valse il soprannome appunto di la signora dammlibuoni.

La nostra abitazione era al quinto piano e non esisteva ascensore. Ero io che avevo il compito di fare la spesa sotto casa. Ero una bambina allegra e la nonna Maria mi chiamava “core cuntento a’ loggia”.

Che voleva dire

Di preciso non lo so, ma credo si riferisse al fatto che mi bastava stare affacciata al balcone per essere felice. Mi piaceva stare fuori al balcone al sole e guardavo le persone passare. Il nostro era un palazzo del Risanamento e affacciava in una piazzetta. Mio padre invece mi chiamava “maggiolino”. Papà era molto affettuoso con noi e ci abbracciava suscitando le critiche della nonna Maria. Mia madre era invece meno espansiva.

La stanza da bagno ospitava una tinozza in cui ci lavavamo. Io, per un periodo, portavo lunghe trecce e mia madre mi pettinava con un grande fiocco sulla testa.

La scuola elementare era intitolata a Vittoria Colonna. La mia maestra era una donna di mezza età, la signora Olga Radente. Era buona.

Come giocavate? Avevate giocattoli?

I giocattoli li ricevevamo nel giorno della Befana e a San Giuseppe, forse perché si festeggiava il padre falegname e allora ci regalavano giocattoli in legno. Avevamo bambole, la piccola cucina, i soldatini, i trenini. Avevamo una stanza da letto per le femmine e una per i maschi. La domenica mattina con mio padre andavamo in visita ai nonni paterni; la nonna Cristina era cieca per un errore di intervento oculistico. Almeno così si raccontava.

E le scuole medie?

Ho frequentato poi le scuole medie al Vittorio Emanuele. Il mio professore di italiano si chiamava Ferolla e quello di matematica, un pazzo, Andreani. Ero una brava scolara e non ho mai ripetuto un anno. Fui rimandata solo una volta in matematica e il professore che mi dava ripetizioni, disse a mio padre: “Vorrei capire perché l’hanno rimandata”. Andreani era pazzo, urlava in testa e ci rimproverava anche se avevamo i capelli lunghi; dovevamo portarli corti o legati in trecce.

Ma, nel complesso, se dovessi definire la tua infanzia con un aggettivo, quale sceglieresti?

Direi felice perché non avevamo niente ma eravamo felici.

Troviamo ancora una foto: è la sua prima comunione. Non ricorda la data, ma riflettiamo un po’ e osserviamo altre foto per cui deduciamo che doveva essere intorno agli anni ’40. Un indizio determinante sono i capelli che, a guardar bene, erano lunghi e legati in due crocchiette. Nello scatto, a figura intera, in un esterno, sono ritratti in primo piano, Elena con la sorella Rita e, alle loro spalle, il fratello maggiore, Luigi, con la sorella del padre, zia Concettina, madrina dell’evento

È il giorno della tua Prima Comunione

Mi ricordo che la chiesa in cui fu celebrata era quella dei Santi Filippo e Giacomo, nei pressi della libreria. Non ci fu nessuna festa però, non ne facevamo nemmeno per i compleanni. Eravamo una famiglia molto cattolica e noi ragazzi andavamo a Messa, con i genitori, ma anche da soli.

Com’era vivere durante il fascismo?

Ero piccola e nella nostra famiglia nessuno partecipava alla vita politica, ma bisognava essere fascisti fuori anche se dentro non lo eravamo. C’era ordine ma il prezzo che si pagava era l’impossibilità di esprimere la propria opinione. Stavamo tutti zitti perché c’era il timore di essere mandati al confino.

Siamo arrivate agli anni ’40 e ci tocca affrontare lo spartiacque della guerra. 

C’è una foto di famiglia, già pubblicata su questo sito, che è necessario riprendere come punto di riferimento

È una foto ufficiale della famiglia datata febbraio 1940, dopo tre mesi l’Italia sarebbe entrata in guerra. Abbiamo in casa molte copie perché il nonno, grande e generoso patriarca, le fece stampare e le regalò a tutti i figli in occasione del 50° anno di matrimonio. In una delle copie che abbiamo, sul retro, si legge: “Il Signore vi benedica e vi conservi sempre uniti nella sua Fede, nel benessere e vi renda lieve il sacrificio del lavoro. Potendolo, ricordatevi di noi. Con affetto mammà e papà Napoli, 10 luglio 1970”. Le leggo la dedica e lei è come la riscoprisse in quel momento. Nella sua espressione passano l’amore e la gratitudine che l’hanno sempre legata ai genitori. Ricorda con piacere l’unione che c’è stata tra loro fratelli, mai persa. Si commuove quasi riflettendo che soltanto lei e il fratello Gianni sono ancora in vita. Parliamo della matrice fortemente cattolica della loro famiglia e di tutta l’energia che i suoi genitori hanno messo nella crescita dei figli.

È una bellissima foto. Facendo un po’ di conti: la nonna aveva 43 anni, il nonno 45 e avevano messo su, in 20 anni di matrimonio, una famiglia di 8 figli nati tra 1922 e il 1936. In questa foto si respira un discreto benessere: avete tutti belle espressioni sorridenti; siete ben vestiti, la nonna e il nonno elegantissimi. Riconosco la spilla sul pizzo nero della nonna.

Non ci è mancato mai nulla. Mio padre lavorava e mia madre, in casa, faceva tutto da sola; con otto figli non era facile.

Hai memoria di quando l’Italia entrò in guerra?

Non mi ricordo i particolari, in fondo avevo solo 11 anni, ma dei bombardamenti sì, di quelli mi ricordo bene. Le sirene, un incubo e poi bisognava scappare. Mio fratello Enzo, terrorizzato, al suono delle sirene dell’allarme aereo, si nascondeva sotto il letto dei miei genitori e tirarlo fuori per raggiungere il rifugio era un’impresa. Poi non era un rifugio vero e proprio, era solo l’androne del palazzo. Vivevamo nella paura.

Ora capisco perché ogni volta che al telegiornale raccontano della guerra in Ucraina e sottolineano il rischio di un conflitto mondiale, tu vai in ansia e dici che se dovesse scoppiare una guerra tu speri di non esserci più perché non vuoi rivivere quell’orrore

Sì, mai più

A rinforzare i suoi ricordi, utilizzo un libro di qualche anno fa “Napoli 1943. I monumenti e la ricostruzione” a cura di Roberto Middione e Annalisa Porzio, edizioni Fioranna, Napoli 2010. Sfogliamo le pagine ricche di immagini e nell’articolo di Roberto Middione leggiamo che il primo bombardamento a Napoli fu nella notte del 1° novembre 1940; nel 1943 ci furono 181 allarmi aerei; l’ultimo bombardamento fu a maggio del 1944. Dal 1942 iniziò lo sfollamento della città che era diventata un fronte di guerra

Andaste via da Napoli?

Nel 1943, dopo tre anni dall’entrata in guerra dell’Italia, la situazione a Napoli città era diventata difficile per i bombardamenti. Fu così che il prof. Augusto Guzzo, autore della casa editrice Loffredo, offrì a mio padre la possibilità di trasferirsi in una sua proprietà a Torre del Greco. Il professore era molto affezionato alla nostra famiglia e scrisse una lettera in cui si leggeva: “Vi supplico, Don Peppino, di trasferirvi in una mia casa…”.

Era una palazzina di due piani, in via S. Giuseppe alle Paludi, vicino al mare. Noi occupavamo il primo mentre al secondo c’era una donna anziana, Lucia, con il figlio. La nostra casa era composta da due grandi stanze. I servizi erano molto primitivi: il bagno era alla turca e per lavarsi bisognava uscire fuori al balcone. Dalla palazzina si accedeva alle campagne di un contadino che chiamavano “‘Ntulino” da cui i miei genitori acquistavano le verdure. Sull’altro lato c’era un altro terreno che apparteneva ad un contadino soprannominato “‘o luongo “. Anche da lui compravamo verdure e uova. Il cibo quindi non ci mancava anche se il caffè era irreperibile e mio padre faceva chilometri in bicicletta per procurare il sale. Ci aiutava zio Mario, che faceva il militare e quando poteva veniva a portarci scatolame e altro.


Prendiamo queste tre piccole foto che portano sul retro indicazione di data e luogo: Torre del Greco 1943. Sono tre piani americani: nella prima Elena è con il padre; nella seconda ci sono, da sinistra, Rita, il padre e la madre; nell’ultima solo Elena.

Confrontando questi scatti con la foto ufficiale di famiglia, sono colpita dal cambiamento. Sono trascorsi solo tre anni ma soprattutto la nonna e il nonno, sembrano invecchiati di colpo

Sai, noi ragazzi eravamo meno consapevoli e lì a Torre del Greco, avevamo anche una certa libertà. Andavamo al mare, alla parrocchia; anche la scuola funzionava. Invece per i miei genitori le preoccupazioni erano tante, innanzitutto il pensiero di sfamare ogni giorno otto figli.

In casa avevamo una radio e ascoltavamo le notizie della guerra. Ricordo il suono angosciante della sigla del telegiornale di radio Londra. Poi i tedeschi arrivarono anche lì. Quando temevamo l’arrivo degli aerei come rifugio avevamo la canna di un pozzo. In seguito ci rifugiavamo nella casa di Don Giovanni Del Gatto, parroco della chiesa di San Giuseppe alle Paludi. Durante un rastrellamento dei tedeschi, mio padre e il primo dei miei fratelli, Luigi, Gigino per noi, scapparono nella campagna e si nascosero in casa del parroco, dove c’era una botola da cui si accedeva a uno scantinato. Mi ricordo il rumore dei carri armati tedeschi che passavano nelle strade mentre noi stavamo chiusi in casa.

Un giorno, per sfuggire alla cattura dei tedeschi, un marinaio entrò dalla porta che dava sul giardino: si inginocchiò davanti a una immagine della Madonna che mia madre aveva sul secretaire. Pregò e poi scappò via.

Poi nel 1944 il Vesuvio eruttò: cosa ricordi?

Da casa nostra vedevamo la lava incandescente che scendeva lungo il fianco del vulcano e c’era un boato di fondo continuo. Poi la cenere ricoprì tutto. La lava si solidificava ma restava tiepida a lungo. Potevamo camminarci sopra.

E finalmente la guerra finì nel 1945…

Si, ma noi restammo a Torre del Greco fino al ’49 perché la nostra casa a Napoli era stata bombardata. Mio padre fittò una casa a Napoli, in via Salvator Rosa e poi nel 1952 ci trasferimmo al Vomero, dove acquistò una casa che poi è quella in cui hai trascorso la tua infanzia.

Ma quando finì la guerra come fu per te?

Ero contenta. Avevo 16 anni. Arrivarono gli Americani e la gente uscì nelle strade: regalavano, cioccolato, calze di nylon. I miei genitori però non ci fecero uscire. Poi la nostra vita continuò. Andavo a scuola e mi diplomai al liceo classico di Torre del Greco, Gaetano de Bottis. Frequentavo la chiesa dei Cappuccini e facevo anche teatro! Avevamo degli amici e ci furono i primi amori e corteggiamenti.

Ci sono nell’album di famiglia questi due scatti, entrambi datati: “Cenerentola” 2 aprile 1945 Torre del Greco; a matita è stato aggiunto Chiesa S. Annunziata (Cappuccini)

Nel primo scatto Elena e la seconda da destra in seconda fila, abbracciata ad un’amica; nel secondo, con un costume di scena, e la seconda da sinistra, in piedi.

Riconosce alcune delle amiche (Maria Pepe, alla sua sinistra nel primo scatto, che si fidanzò con il fratello Gigino) e si ricorda anche le parole di una canzoncina dello spettacolo.

Questo primo piano porta la data maggio 1945, Spiaggia del Cavaliere, Torre del Greco

Qui sei sulla spiaggia

Si, andavamo al mare da soli, alla spiaggia del Cavaliere. Ci sentivamo liberi anche se correvamo dei rischi: per raggiungere la spiaggia attraversavamo un passaggio a livello. Avevo un costume da bagno di lana che mia nonna aveva fatto utilizzando la lana di un maglione vecchio. Immagina che succedeva quando uscivo dall’acqua…  Immagina cosa voleva dire per noi ragazzi. Prima della guerra nostro padre ci portava al mare una volta all’anno, a Coroglio, e ci prendeva in braccio perché non voleva che ci sporcassimo i piedi con la sabbia. Immagina che significò per noi tutta quella libertà e il mare sotto casa!

Mia madre, a volte, per essere sicura che i miei fratelli non avessero filonato la scuola per andare al mare, saggiava la pelle delle loro braccia per vedere se fossero salate. Per me Torre del Greco è un ricordo di libertà, eppure eravamo poveri e non avevamo più una casa nostra. Mi ricordo che i vestiti erano sempre gli stessi e non posso dimenticare quel giorno che a scuola, mentre ero nel banco, muovendo le braccia, sentii che il vestito si strappava

C’è nel suo racconto un orgoglio pacato per avercela fatta, per le piccole conquiste di autonomia, nonostante le privazioni, la paura, le perdite.

Finito il liceo che facesti?

Mio padre, appena compiuti 18 anni, volle che cominciassi a lavorare in libreria. Anche mia sorella Cristina lavorava con me. Pure 

 i miei fratelli Alfredo, Enzo e perfino Gianni, il più piccolo, quando non andava a scuola, lavoravano in libreria e casa editrice. Quindi ho iniziato nel 1948; raggiungevamo Napoli tutti i giorni col treno perché abitavamo ancora a Torre del Greco. Cristina ed io ci occupavamo della contabilità, ma anche di preparare i pacchi di libri per le spedizioni se era necessario. Mio padre era inflessibile: lavoravamo fino al tardo pomeriggio e potevamo andare via solo se avevamo finito il nostro lavoro. Poi se c’era un’emergenza, lui senza nemmeno guardarci in faccia diceva: “Questo pacco deve partire, per il buon nome della ditta”. Così noi, già pronte per andare via, dovevamo restare. 

Quando racconta questo episodio sento ancora la rabbia repressa nella sua voce, ma insieme l’accettazione e la stima per questo padre capace, con il padre e poi con i fratelli, di dare, tra gli anni 40 e 50, un impulso nazionale all’azienda di famiglia. Mi parla degli autori: Colamonica, Del Grande, Marmorale. Ricorda come tutti restarono al fianco dell’azienda anche quando, nel 1944, un incendio scoppiato per un corto circuito durante la cerimonia di inaugurazione della scuola elementare Settembrini, distrusse la libreria. Per alcuni anni, in attesa di riaprire nella loro sede, si appoggiarono in dei locali presso la chiesa di Santa Chiara.

Poi nel 1949 tornaste a Napoli, prima in Via Salvator Rosa e poi al Vomero nel 1952.

Abbiamo tante foto soprattutto degli anni ’50; molte sono scattate nella casa del Vomero che conosco bene anche io. Mi sembrano anni felici per voi. Sei molto elegante…

Scegliamo alcuni tra gli scatti. Il primo è datato giugno 1954: Elena guarda sorridente verso l’obiettivo e indossa un abito a quadretti tipico di quegli anni; i dettagli (l’orologio al polso, gli occhiali da sole alla cintura, il filo di perle) raccontano di un benessere raggiunto. Le altre due foto sono datate 1955. In entrambe riconosco uno dei balconi della casa dei nonni, al Vomero. La seconda è un bel ritratto di Elena (a destra) con la sorella Rita e la moglie del fratello maggiore, Mina.; nella terza Elena posa con un intrigante cappello di paglia.

Si compiace del suo aspetto, come accade a tutti noi quando guardiamo foto degli anni passati e ci scopriamo più belli rispetto alla percezione di quel tempo.

Però ero bella!

Si, bellissima e con bei vestiti e poi vedo che fumavi

Si, io sono stata sempre una “rivoluzionaria”. A diciott’anni affrontai mio padre e gli dissi: “Papà, io voglio fumare, ma non chiusa nel gabinetto”. Così poi nessuno in famiglia si nascose per fumare.

Ho sempre portato le novità in casa: fumare, avere degli amici, uscire. Organizzare gite a mare con fratelli e fidanzate..

Poi guadagnavo e mi compravo i vestiti, anzi me li cuciva un sarto che si chiamava Mango. Potevo soddisfare i miei desideri e misi da parte i soldi per comprarmi il corredo e per pagarmi perfino la festa del matrimonio.

Aspetta, prima del matrimonio, devi raccontare come incontrasti papà

Si, allora dobbiamo parlare dell’università. Dopo il liceo, mi iscrissi alla Facoltà di Chimica ma al primo esame, Mineralogia, presi 18 e mi spaventai. Così passai alla Facoltà di Farmacia e lì conobbi Sandro. Frequentavo quando potevo perché lavoravo; i laboratori erano obbligatori e durante un’esercitazione ci conoscemmo. Sandro mi vide e sussurrò alle mie spalle “Che bei capelli ha la collega!” Così poi ci fidanzammo nel 1953. I miei genitori lo accettarono subito anche perché un avvocato cliente della libreria lo conosceva bene e disse a mio padre che era un gran bravo ragazzo. Io poi non conclusi gli esami e non mi laureai, invece Sandro sì.

Quanti anni durò il fidanzamento?

Sei anni, ci sposammo nel 1959. Furono anni belli, pieni di speranza e progetti

Queste due foto portano una dedica ciascuna. Tu scrivevi: “Maggio 54. A Sandro caro con la promessa di eterna felicità. Elena”. Papà anche ti scriveva: “Giugno 1954. A Elena mia, cui ho dedicato tutto il mio pensiero, tutto il mio affetto e a cui dedicherò tutta la mia vita. Sandro”. Come eravate romantici!

Si, ma si usava ai miei tempi. Era un modo per promettersi in attesa del grande evento: il matrimonio. Durante il fidanzamento non avevamo tante occasioni per stare insieme: la messa di domenica, qualche gita, qualche passeggiata.

Io amo moltissimo questa vostra foto. Da piccola la guardavo sempre perché mi sembravate due attori dei film americani. Avete entrambi una bellissima espressione mentre guardate un punto lontano. Ai miei occhi di bambina eravate bellissimi e innamoratissimi. È datata agosto 1955

Si, mi ricordo; eravamo andati a trovare mia sorella Maria che era in vacanza a Seiano

Riconosco alla tua mano, la fede bombata che oggi indosso io spesso

Me la regalò Sandro

Vedo la tristezza nei suoi occhi e so che sta pensando alla morte improvvisa e prematura di papà che ci ha lasciati nel 1992. Spesso, nei momenti di malinconia soprattutto serali, lamenta la sua mancanza e rimpiange di non essere potuta invecchiare con lui.

Guardiamo altre foto tra cui una serie scattate nell’agosto del 1959, pochi mesi prima del matrimonio che sarebbe stato in dicembre. 

Dove eravate?

Era una gita al Faito, Sandro, io e i miei fratelli. Abbiamo tutte queste foto perché Enzo, Alfredo e Gianni erano appassionati di fotografia. Anche quando nasceste voi, scattarono tante foto

Infatti l’ultimo scatto ritrae papà, a sinistra, e poi nell’ordine Alfredo e Enzo; sul piano d’appoggio è in bella vista una macchina fotografica. In uno degli scatti c’è anche zia Brunella che sarebbe diventata la moglie di zio Enzo. Le foto degli zii sono in assoluto tra le più belle del nostro archivio di famiglia, spesso in un bianco e nero che non fa rimpiangere il colore da cui sarà soppiantato negli scatti degli anni successivi.

E ora arriviamo al matrimonio…Qui abbiamo un intero album rilegato e poi altre foto sparse. Facciamo una selezione


Abbiamo scelto cinque scatti: nel primo Elena entra in chiesa con il padre; nei due seguenti la cerimonia si è conclusa ed esce dalla chiesa con Sandro, entrambi visibilmente felici e forse meno tesi; poi c’è un intenso primo piano degli sposi in auto e infine un momento della festa, quello del taglio della torta.

Che mi racconti del tuo matrimonio?

Mi sposai il 28 dicembre del 1959, nella chiesa di San Gennaro ad Antignano e poi festeggiammo a Villa Hertha, una villa d’epoca al Vomero. Poi partimmo per un viaggio di nozze brevissimo, solo qualche giorno a Roma e di questo mi dispiace ancora oggi. 

Ero contenta perché mi sembrava un traguardo di libertà, di emancipazione dalla famiglia di origine alla quale però sono sempre rimasta molto legata. Anche Sandro fu subito accolto nella nostra grande famiglia. Mio padre era un patriarca generoso che ha sempre creato occasioni per tenerci uniti. Andammo a vivere in una casa che era stato un dono di mio padre. Io decisi di smettere di lavorare. Mio padre mi chiese se volevo continuare ma ero decisa a occuparmi della mia famiglia

Certo, oggi sembra strana questa tua scelta. Le donne hanno lottato per garantirsi la possibilità di lavorare

Si, lo so ma per me fu un’altra scelta di libertà. Mio padre era un datore di lavoro severo ed esigente. Io volevo gestire il mio tempo, volevo essere moglie e madre.

Però spesso ti ho sentito dire che il tuo “lavoro” di casalinga non è mai stato riconosciuto. Ti sei pentita di questa tua scelta?

No, mi sentivo soddisfatta nel riuscire a portare avanti una famiglia e comunque avevo vissuto il lavoro nella ditta di famiglia come una schiavitù. Soprattutto non poter gestire il mio tempo.

Però… mi fai riflettere che in fondo questa tua rivendicazione di libertà è molto moderna: oggi si parla di nuovo della riduzione degli orari di lavoro e della necessità di prendersi cura della vita personale. Sei stata una pioniera anche in questo!

Ridiamo di gusto, ma davvero condivido la sua idea di fondo di privilegiare le esigenze personali rispetto alle ambizioni lavorative che non lasciano spazio ad altro

E poi siamo nate noi, mia sorella ed io, a un anno di distanza l’una dall’altra 

Si, ma forse è meglio fermarci qui altrimenti diventa un racconto noioso per chi ascolterà o leggerà. Troppi decenni per arrivare ad oggi..

Va bene, ma come vogliamo concludere?

Basterà dire che sono grata per la vita che ho avuto, per la famiglia che ho costruito con Sandro e con voi; certo anche attraversando momenti difficili, ma per tutti è così

Scelgo alcune foto in cui ci siamo noi figlie. La prima, del gennaio 1961, ritrae Elena con mia sorella Anna Maria sgambettante a quattro mesi; nella seconda tiene in braccio me che dovevo avere forse un anno, quindi nel 1963 ca; la terza e la quarta ritraggono l’intera famiglia al mare nel 1965 e a Menaggio (Lago di Como) nel 1968 durante una delle vacanze organizzate dal nonno.

Come è stato rispondere a queste domande?

Mi ha dato la possibilità di mettere insieme i ricordi che ormai erano sparsi e di rivedere il filo rosso della mia vita. Sono contenta ma mi imbarazza l’idea che altri possano leggere di me

Perché?

Perché non sono nessuno e non ho velleità di farmi conoscere

Certo, ma come ho cercato di spiegarti il tuo racconto farà parte di un progetto che raccoglie le storie personali partendo dalle foto di famiglia perché le storie individuali possano incrociarsi con la storia che studiamo dai manuali

Luoghi del cuore, di Emanuele Gargiulo

Sono un appassionato di calcio e anche un giocatore! Eccomi qui, in uno scatto che mi riprende a figura intera in campo medio, durante una partita

Io durante una partita, Napoli 2019

Quindi per questo progetto ho pensato subito di scegliere delle foto che riguardassero questo magnifico sport. Nelle due foto che ho scelto è raffigurato lo stadio di Napoli nel quartiere Fuorigrotta.

La prima foto l’ho trovata nel web: è del 1959 quando lo stadio si chiamava ancora San Paolo. Oggi, invece, è intitolato a Diego Armando Maradona in onore del calciatore deceduto recentemente.

La seconda foto l’ho scattata io durante una partita, Paganese-Cantera Napoli, poiché, come potete immaginare, sono un frequentatore dello stadio e questo selfie, scattato da mio padre, lo testimonia.

Nel 2019 ad esempio, ero lì ad assistere alla memorabile partita Napoli-Liverpool, terminata 2 a 0 per il Napoli.

Nel 1959, anno in cui fu costruito lo stadio, il pubblico sedeva sui gradoni in marmo perché non esistevano ancora i sediolini in plastica, che, invece, ci sono attualmente. Come si può ben notare lo stadio non aveva neanche la copertura per riparare gli spettatori dalla pioggia. La capienza era di 87.500 spettatori in piedi, mentre ora è 76.000 per l’adeguamento alle norme di sicurezza richieste dalla F.I.F.A. Federazione Italiana Football Association.

Le panchine, dove si siedono i calciatori e l’allenatore con lo staff sanitario, erano montate sui bordi della pista di atletica, mentre oggi sono poste in parte all’interno dell’estremità del terreno di gioco e sono al coperto, sempre per riparare dalla pioggia o anche dal forte sole.

Sempre poi a differenza del passato, oggi c’è il tabellone elettronico che mostra il risultato della partita e i calciatori che segnano il goal.

All’ingresso dello stadio hanno messo i tornelli elettronici che girano per far accedere solo quando viene inserito il biglietto: questo per motivi di sicurezza e di identificazione dello spettatore.

L’impianto di illuminazione dello stadio adesso si trova sulla copertura anteriore dei settori mentre prima c’erano solo sedici fari agli angoli della parte alta dei settori stessi.

Osservando le due foto dello stadio ho pensato che oggi è tutto più comodo per i tifosi che hanno la possibilità di utilizzare comode sedute e inoltre l’afflusso allo stadio è molto più controllato.

Le guardo anche con malinconia perché mi ricordano i tempi pre – Covid in cui potevo andare allo stadio e vedere la mia squadra del cuore dal vivo

Le donne e lo sport, di Maria Vittoria De Maria

Oggi sono qui per parlarvi dei diritti sportivi delle donne e porterò come esempio la passione di mia madre quando era ancora una ragazzina: la danza.

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In questa foto, scattata da mia nonna, purtroppo molto sfocata, troviamo mia madre durante una  lezione di danza. Mia madre ha iniziato a praticare questa disciplina all’età di 11 anni e ha fatto di tutto per poterla continuare a esercitare. Dico così perché non solo mia madre era troppo grande per realizzare questo sogno, ma anche perché i miei nonni hanno dovuto fare grandi sacrifici per permettersi di pagare ogni singola lezione.

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Per una certa mentalità di una volta, una donna che praticava sport era vista come un qualcosa fuori dall’ordinario.

Gli uomini sono sempre stati abituati a vedere la donna come un essere curato, sensibile e che si prende cura soprattutto dei figli e delle faccende domestiche. Però nello sport la sensibilità si sposa con la tenacia  e la volontà di impegnarsi. Infatti, per eliminare questo pregiudizio sulle donne, queste hanno dovuto impegnarsi di più e negli sport esprimere al meglio le loro capacità. La danza è un’arte in cui le donne hanno espresso soprattutto la loro attitudine al bello. Comunque, oggi e nel passato hanno dimostrato di essere capaci di potersi impegnare al meglio in quasi tutte le attività sportive.

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Se mettiamo a confronto le donne di un tempo rispetto a quelle di oggi, possiamo notare che la situazione è più che migliorata.

Nell’antichità alle donne non era nemmeno concesso di partecipare ai Giochi Olimpici. Oggi, invece, le donne sono riuscite a far valere i loro diritti e possiamo anche trovare i campionati di calcio femminile, che un tempo era considerato uno scandalo. C’è da dire che però le donne di oggi trovano lo stesso difficoltà nel praticare alcuni sport considerati ancora maschili. Anche il timore  di esser definita un maschiaccio a volte condiziona ancora la donna…

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Però nel passato e ritengo anche oggi , se veramente vogliamo fare attività sportiva possiamo farlo usando la bici come faceva la mia nonna, ritratta nella foto. Questa immagine è stata  scattata quando mia nonna materna, Maria Rosaria Tutichiano, era ancora una ragazzina, e pur di fare attività fisica andava gironzolando per il paesino con la sua amata bicicletta, facendo lunghissime passeggiate. Per lei era un modo per divertirsi e per sfogarsi. A parte andare in bicicletta, mia nonna non praticava nessuno sport, tanto meno la mia bisnonna, ma una cosa che amava fare e che tuttora è il suo hobby preferito è dipingere. Infatti, a 38 anni è riuscita a realizzare il suo sogno: diventare un’insegnante di storia dell’arte. Possiamo dire che nella mia famiglia io mi riconosco nelle donne che hanno sempre dimostrato di essere tenaci, costanti nel voler perseguire i propri obiettivi, superando spesso gli ostacoli.

Benvenuta adolescenza!, di Ilaria Mancieri, I M

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La foto è larga 18 .5 cm e alta 12.5 cm. Anno 2007

In questa foto, fatta in casa, ci sono io appena nata e mia nonna Ida, madre di mia mamma, nel 2007.

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La foto è larga 12.5 cm e alta 17 cm. Anno 2007

Qui invece siamo nel  2007 quando avevo 10 mesi a Vieste con mia mamma Alessandra, in questa foto sono molto felice perché era uno dei miei primi viaggi ed ero emozionata perché era la prima volta che vedevo il mare.

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La foto è larga 17 cm e alta 12.5 cm. Anno 2011

In questa fotografia siamo nel 2011, quando avevo 4 anni, in Sicilia, con mia sorella Giulia che, fin da piccola, è stata, non solo mia sorella, ma anche la mia migliore amica e lo sarà per sempre.

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La foto è larga 12.5 cm e alta 19.5 cm. Anno 2012

In questa foto stiamo nel 2012 quando avevo 5 anni a casa mia con mio padre Enzo. Da come si nota stavo giocando a cavallo su mio padre e mi stavo divertendo.

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La foto è larga 12 cm e alta 17 cm. Anno 2015

In questa fotografia siamo nel 2015 quando avevo 8 anni, a Ischia, con dei nostri amici a cui voglio molto bene. Ero felice perché stavamo nello stesso albergo e dormivamo tutti  insieme.

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La foto è larga 12 cm e alta 18 cm. Anno 2017

Qui stiamo a casa di mia cugina Federica nel 2017 quando avevo 9 anni. Federica è cresciuta con me e per me è un’altra sorella maggiore che mi ha sempre aiutato e insegnato tante cose.

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Foto digitale

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Questa è la C.S.V. la mia squadra di nuoto a cui sono molto legata, perché non è una semplice squadra per me, è una seconda famiglia da cui non vorrei separarmi mai.

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E poi ci sono loro. Sono i miei compagni di classe, ma non sono semplici amici, sono pazzi, scatenati, ma simpaticissimi.

 

Una vita in sella, di Francesca Pia Vairo, prima I

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Quante volte ci è capitato a casa dei nonni di sentire quella voglia irrefrenabile di frugare nei cassetti, curiosare, indagare… bene! è capitato anche a me!

Era lì sopra tutte le altre, luccicava quasi per quanto era bella, la foto di mio zio su una moto da cross spettacolare, di quelle che si vedono nei film, di quelle che quando pensi di poterci salire su hai un misto di paura ed eccitazione.

Mio zio Bruno aveva passato metà della sua vita in sella a una moto, aveva questa passione da bambino, coltivata negli anni tra sacrifici e soddisfazioni, di nascosto alla nonna, dal nonno (poco amante delle moto e contrario a questo tipo di attività).

Ci furono anni in cui si divertiva con una piccola moto e iniziò a fare le gare in gran segreto, poi vinse la sua prima gara e, finalmente, uscì allo scoperto e convinse il nonno, che gli regalò una moto nuova di zecca…lui era un grande, ne aveva vinte di gare, alcune sulle spiagge, altre no, diciamo che ovunque andassero “loro due” vincevano.

Era famoso, tanto è che una volta fu ospite in una trasmissione RAI, dove raccontò le sue avvincenti avventure.

Mio padre, quando gli mostrai le foto, si commosse, vidi subito le lacrime nei suoi occhi, si ricordò improvvisamente di tutte quelle emozioni che suo fratello gli aveva regalato, mia nonna poi…poveretta, era felice per i traguardi raggiunti , ma spaventata all’idea che potesse sempre succedere qualcosa, essendo uno sport pericoloso!

L’anno in cui sono state scattate le due fotografie era il 1983. Per la seconda si trattava di una manifestazione su una spiaggia di Napoli, non so dove precisamente, ma so che era lì. La mia famiglia ha conservato le foto per anni quasi come fossero un gioiello, qualcosa da mostrare agli amici e di cui andarne fieri…